50 anni possono sembrare molti, ma non è altro che un battito di ciglia nella storia della Terra. Eppure in soli 50 anni più di 140 mila specie animali sono scomparse e la causa principale è l'opera diretta o indiretta dell'uomo. Proprio di questo si è parlato nella prima giornata della Cop15 sulla biodiversità che si sta tenendo questi giorni a Montreal. In particolar modo il WWF e la Società Zoologica di Londra hanno reso nota una stima allarmante: il numero degli animali selvatici in tutto il mondo sia calato di circa il 69% dal 1970 al 2018.
Questa stima proviene dal Living Planet Index, uno strumento che monitora la crescita e la diminuzione di 32.000 popolazioni di 5.230 specie animali diverse, constatando eventuali cali, aumenti o, in questo caso, scomparse. Che questi dati siano stati resi noti proprio durante la Cop15 sulla biodiversità non è solo simbolico, ma è un campanello d'allarme fondamentale per far comprendere una cosa importante: ogni giorno che passa il nostro impatto sulla biodiversità del Pianeta si fa sempre più pesante e ben presto arriveremo a un punto di non ritorno.
A Montreal ad ascoltare i dati sulla profonda crisi della biodiversità ci sono rappresentanti di tutti i paesi delle Nazioni Unite che per 2 settimane, dal 7 al 19 dicembre 2022, faranno il punto sullo stato di salute dei nostri ecosistemi e concorderanno una nuova serie di obiettivi per guidare l'azione globale e salvaguardare la biodiversità con una data di scadenza precisa: bisogna invertire il senso di marcia entro il 2030.
Quest’edizione, poi, è particolarmente importante perché è prevista l’adozione di una nuova serie di obiettivi sulla biodiversità che modificheranno e si aggiungeranno a quelli dell'incontro del 2010 tenuto a Nagoya, in Giappone. Questi obiettivi rientravano nel Piano strategico per la biodiversità 2011-2020 ed erano chiamati gli Aichi Target adottati proprio nella Cop10 del 2010. Fra questi vi erano dimezzare la perdita di habitat naturali e destinare il 17% della superficie mondiale a riserve naturali. In quell’occasione i governi avevano stabilito di raggiungere quegli standard di conservazione della biodiversità entro il 2020, ma secondo un rapporto della Convention on Biological Diversity redatto dagli esperti della Conferenza delle Parti, nessuno di questi obiettivi è stato pienamente raggiunto.
Cos'è il Living Planet index
Riuscire a tenere traccia degli stravolgimenti ecosistemici causati dall'uomo, però, non è semplice e per poterlo fare gli scienziati hanno dovuto studiare diversi indici che possono rappresentare con abbastanza precisione lo stato di salute delle popolazioni animali del Pianeta. Il Living Planet Index (LPI) fa proprio questo: una misura dello stato della diversità biologica globale basata sulle tendenze della popolazione di specie di vertebrati provenienti da tutto il mondo.
Un paragone più vicino alla nostra visione antropocentrica può essere fatto con il mondo dell'economia in cui spesso ci sono indici del mercato azionario che, invece di proporre il valore di ogni singola azione di ogni impresa, fanno una stima generica più o meno accurata e riportano il valore di insieme di un pacchetto.
I dati sui quali vengono fatti queste stime derivano dal Living Planet Database (LPD) che contiene attualmente dati di oltre 31.821 popolazioni e di più di 5.230 specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi provenienti da ogni angolo del Globo. Per la raccolta sono state scelte le riviste, i database online e i rapporti governativi che in via ufficiale, a loro volta, riportano lo stato di salute di una popolazione in modo puntiforme. Ecco, dunque, che grazie al minuzioso lavoro di statisti ed esperti della conservazione è possibile aggregare tutti i dati provenienti dai singoli report sulla biodiversità, donandoci un indice, appunto lo LPI, che con una rapida occhiata ci restituisce l'andamento della biodiversità del Pianeta.
I numeri del declino degli ultimi 50 anni
Grazie a questo indice abbiamo un quadro più o meno chiaro delle condizioni in cui versano le popolazioni di animali nel mondo. Innanzitutto, a soffrire di più l'opera dell'uomo sono i leoni marini, gli squali, le rane e i salmoni, di cui si parla di un vero e proprio collasso. Questi animali sono minacciati per diversi motivi come il riscaldamento globale e, in generale, la perdita di habitat. Alcune specie poi, come i salmoni, sono spesso nel mirino dell'industria ittica che sfrutta questi animali come risorsa alimentare senza preoccuparsi troppo della sparizione degli animali dai corsi d'acqua di America e Nord Europa.
Il declino è stato particolarmente grave in America Latina e nei Caraibi, dove la popolazione di animali selvatici è crollata in media del 94%. L'Africa ha visto un calo del 66%, seguita dalla costa pacifica dell'Asia con il 55%, il Nord America con il 20%, e in fine Europa e Asia Centrale con il 18%. Sono proprio i paesi a clima tropicale quelli più colpiti per via della fragilità dei loro habitat. Paludi e foreste, in particolare, sono i luoghi naturali più martoriati dall'uomo, colpiti soprattutto dal global warming e dal cambio di uso del suolo.
Ad oggi, dunque, sono più di 147.500 le specie a rischio nella "lista rossa" dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) e di queste, più di 41.000 sono sull'orlo dell'estinzione. Non riuscire a rispettare gli obiettivi imposti nella Cop10 ha portato a risultati drammatici per la conservazione della biodiversità e queste due settimane a Montreal, dunque, potrebbero essere essenziali per porre rimedio alla nostra negligenza.