Un padre e una madre ci mostrano orgogliosi la foto del cervo appena ucciso dal loro figlio di soli otto anni. Un venditore argentino di safari di caccia si lamenta delle troppe restrizioni imposte dal governo sulle esportazioni dei puma e della stupidità dei politici, evidentemente un danno per gli affari. Padre e figlio, cacciatori più tradizionalisti invece, ci assicurano che loro, a differenza di tanti altri, il coraggio di uccidere un maestoso e bellissimo elefante non riuscirebbero mai a trovarlo.
Queste sono solo alcune delle testimonianze e delle confessioni intime che abbiamo raccolto alla Jagd&Hund, la più grossa e importante fiera della caccia d’Europa che ogni anno si tiene a Dortmund, in Germania. Qui, all’interno dell’area fieristica WestfalenHallen, tra armi di ultima generazione e giacche a vento firmate, spettacoli di falconeria e bambini che guardano documentari su come scuoiare un alce appena abbattuto, tutti possono scegliere da un accattivante menù sia il caratteristico bratwurstsemmel accompagnato da una buona pinta di weiss che la possibilità di uccidere e portarsi a casa un ghepardo o una giraffa.
È la cosiddetta caccia al trofeo, ovvero la possibilità di uccidere per divertimento anche animali selvatici protetti in giro per il mondo da esibire con vanto in salotto o sulla parte del camino. Noi ci siamo andati a Dortmund, dove è possibile trovare in un unico posto la maggior parte dei venditori di esperienze di caccia al trofeo in tutto il mondo. E siamo riusciti a documentare senza filtri come funziona e che cos'è la caccia al trofeo oggi, un universo molto vasto, variegato ed estremamente complesso alla continua ricerca di una legittimazione conservazionistica o sociale e che sta provando, a fatica, a tornare silenziosamente nella comodità dell'ombra.
Abbiamo parlato con i cacciatori, che nella comfort zone della fiera si sono aperti come mai, raccontandoci pensieri, emozioni, desideri, opinioni e contraddizioni. Cosa c’è nella mente di una persona che spende decine di migliaia di euro per uccidere un animale? Chi è che vende e organizza l’uccisione di animali protetti per divertimento? Quali sono le conseguenze sulla conservazione delle specie e sulle economie locali? È possibile fare qualcosa per fermare tutto questo? Del resto, siamo l'unica specie che uccide per il semplice gusto di farlo, come ha evidenziato anche la direttrice Diana Letizia nel suo editoriale.
Abbiamo provato a rispondere a queste e a tante altre domande, che mai come gli ultimi anni stanno animando il dibattito pubblico e politico internazionale sul futuro della caccia al trofeo che, tra etica e conservazione, ambientalismo e affari, adrenalina e desideri di morte si trova ora di fronte a un crocevia, un bivio a cui siamo arrivati oggi anche grazie al leone Cecil.
In principio fu il leone Cecil
È il 2 luglio del 2015 quando il dentista americano Walter Palmer scocca la freccia che uccide il leone che cambierà per sempre la percezione del mondo sulla caccia al trofeo. Quel leone, infatti, non è un maschio qualunque ma uno degli animali più famosi del Hwange National Park, in Zimbabwe, e si chiama Cecil.
Con la sua morte, Cecil ha appena sollevato il velo che ha tenuto a lungo nascosto agli occhi dell’opinione pubblica l’esistenza e la portata della caccia al trofeo, che altro non è che la possibilità, per chi può permetterselo, di poter uccidere per divertimento anche animali protetti e a rischio estinzione come leoni, elefanti o rinoceronti.
Palmer, con l’aiuto di due guide di caccia locali, aveva attirato il predatore fuori dall’area protetta con il cadavere di elefante ucciso la settimana precedente: il dentista non era infatti un bracconiere ma un cacciatore che aveva legittimamente acquistato per oltre 50.000 dollari il diritto di uccidere e portarsi a casa un esemplare maschio adulto. Non aveva commesso alcun reato, quindi, rispettando tutte le leggi e i regolamenti locali e internazionali. Ma nonostante ciò, la morte di Cecil ebbe una risonanza mediatica inaspettata e senza precedenti che scatenò un’indignazione globale che dura ancora oggi.
Palmer ricevette numerose minacce di morte e la disapprovazione dilagante per quel gesto obbligò molte compagnie aeree e governi occidentali a porre maggiori restrizioni al trasporto e alla caccia di animali selvatici protetti, accendendo un dibattito ancora estremamente attuale ma irrisolto. Il gigantesco “Effetto Cecil” – come è stato definito da molti – si percepisce infatti tutt’ora ed è stato innescato in parte perché il leone, munito di radiocollare, era seguito e studiato da anni dai ricercatori dell'Università di Oxford. Ma soprattutto perché quell'animale aveva un nome, una storia e un’individualità: di lui si conoscevano figli e fratelli, compagne e rivali, successi e fallimenti, vita e morte.
Eppure, ancora oggi, migliaia di animali protetti e a rischio estinzione senza nomi o storie da raccontare che li rendono individui e non semplici esemplari vengono uccisi in tutto il mondo solo per divertimento e persino noi europei siamo coinvolti, Italia compresa. Anche se tutti questi animali vengono uccisi in Africa, Nord America o Asia, sono i ricchi cacciatori occidentali a sostenere e finanziare questo tipo di attività: tra il 2014 e il 2020, l’Italia ha importato ben 437 trofei di caccia provenienti da specie protette a livello internazionale. Siamo i primi in Europa per numero di trofei di ippopotami importati e quarti invece per i leoni come Cecil.
E tutti questi e moltissimi altri animali sono il piatto forte delle agenzie e delle riserve di caccia private presenti alla Jagd&Hund, dove davvero tutti – conto in banca permettendo – possono comprare la possibilità di uccidere l'animale più grosso e feroce che hanno sempre sognato di dominare.
Jagd&Hund: la più grande fiera di caccia europea
Quella di Dortmund è la fiera della caccia più grande d’Europa. Si svolge ogni anno nello stato federale del Nordrhein Westfalen, proprio la zona della Germania con il più alto numero di cacciatori. Secondo quanto pubblicato sul sito del Ministero tedesco delle Politiche Agricole, infatti, dei 400 mila cacciatori tedeschi, ben 94 mila vivono qui. Tra centinaia di espositori si possono trovare accessori per la caccia, spettacoli con animali, sfilate di moda e ovviamente armi di ogni dimensione e calibro. Il giro d’affari è enorme e infatti l’evento richiama alcuni dei brand più importanti del mondo, pronti a raggiungere la Germania per promuovere i propri prodotti. Dall’abbigliamento ai fuoristrada, dai droni con termocamera ai binocoli a infrarossi.
Uno sguardo distratto potrebbe percepire un ambiente sereno e tranquillo, ma tra i corridoi spuntano bambini che imbracciano fucili, schermi dove vengono proiettate continuamente immagini di animali che vengono uccisi e si possono seguire lezioni, tenute da importanti cacciatori che sono veri e propri influencer e che spiegano come utilizzare le armi migliori per uccidere anche gli animali più grossi e tenaci.
Molti abitanti della città, però, non sono felici per quello avviene all’interno dei padiglioni della fiera. Noi di Kodami, durante la nostra visita a Dortmund, abbiamo parlato anche con diversi cittadini e le risposte che abbiamo ricevuto sono state piuttosto critiche nei confronti dell’evento e in particolare sulla caccia al trofeo.
L’aspetto che genera maggiore sgomento tra le persone è il fatto che un’importante sezione della fiera sia dedicata non alla caccia più tradizionale, ma quella di grossi animali esotici come elefanti, orsi e leoni per un passatempo crudele che porta i cacciatori a viaggiare in tutto il mondo per uccidere animali il cui corpo (o parte di esso) verrà conservato come un souvenir da esporre in casa. Tutto questo, a Dortmund, viene promosso sotto gli occhi delle famiglie che passeggiano tranquillamente tra gli stand, come se nulla fosse. E la preoccupazione di tanti, infatti, è soprattutto quella che eventi di questo tipo possano finire per condizionare e desensibilizzare anche i più piccoli. Ma facciamo un passo indietro: come nasce e come funziona la caccia al trofeo?
Animali uccisi come trofei, dal colonialismo europeo a oggi
La caccia al trofeo è una particolare attività venatoria finalizzata all’uccisione di animali selvatici al solo scopo di ottenere alcune parti come pelle, testa, corna, artigli o addirittura organi sessuali da collezionare ed esporre come trofei. I safari di caccia si effettuano in tutto il mondo, non solo in Africa, e sono perciò praticati e regolamentati in modi molto diversi a seconda delle aree geografiche e dei paesi coinvolti. Solitamente, però, sono gli animali più grossi, maestosi e appariscenti ad essere preferiti come appunto grandi carnivori o i maschi adulti coi loro vistosi ornamenti come zanne e corna.
Lo stesso Palmer, per esempio, era stato attratto proprio dalla criniera particolarmente scura di Cecil, un elemento poco comune che impreziosisce, genera invidia e valorizza agli occhi di chi lo ammira il trofeo finale. Per come la conosciamo oggi, la caccia al trofeo nasce insieme alle esplorazioni e al colonialismo europeo dei primi dell’800.
Per i colonizzatori, l’uccisione di un animale feroce, esotico e mai vista prima nel Vecchio Mondo era una decorazione preziosa da esibire con vanto, poiché simboleggiava anche il trionfo dell’uomo civilizzato sulle terre e i popoli più selvaggi. Viaggiare lontano e vantarsi di aver affrontato un animale raro e pericoloso è diventato rapidamente una vera e propria industria che ha sempre mosso ingenti somme di denaro. Già nel 1900 ai cacciatori, oltre che la battuta di caccia vera e propria, veniva fornito ogni comfort possibile: cibi e bevande di lusso, alloggi sfarzosi ed esotici e guide personali disposte ad accompagnare il cacciatore in ogni tipo di attività. Ancora oggi, del resto, la caccia al trofeo è estremamente costosa, quasi “aristocratica” si potrebbe dire.
Il prototipo del cacciatore di trofei non è cambiato molto dal periodo del colonialismo: prevalentemente bianco, ricco e che si arroga il diritto di poter toccare brevemente luoghi esotici e lontani solo per uccidere e portarsi a casa gli animali più carismatici del posto. I cacciatori pagano cifre immense per ottenere la licenza di uccidere, e le modalità di caccia hanno assunto oggi differenti forme a seconda della disponibilità economica, dell’esperienza desiderata e del paese che ospita e regolamenta l’attività.
In linea generale, è possibile però suddividere la caccia al trofeo in tre grosse tipologie.
Quella in natura, praticata in vaste aree selvagge pubbliche o private, dove esperti e governi locali stabiliscono le quote annuali da poter vendere per ogni specie in modo sostenibile, non danneggiando troppo numericamente le popolazioni e il futuro delle specie e degli affari. Questa è forse la forma più tradizionale ed arcaica che richiede spesso molto tempo e impegno per rintracciare e uccidere gli animali desiderati.
Esistono poi i ranch e le vere e proprie riserve di caccia dove gli animali vengono appositamente mantenuti o introdotti unicamente per essere venduti e abbattuti. A tale scopo nel tempo sono state anche inserite numerose specie esotiche in giro per il modo, al solo scopo di essere messe a disposizione dei cacciatori di trofei, come bufali, antilopi, mufloni o cervi ormai comuni e abbondanti anche in luoghi lontani dalle loro aree di origine come in molti ranch sia in Nord che in Sud America.
C’è poi la cosiddetta “caccia in scatola” (da canned hunting), la tipologia più controversa e criticata in assoluto, anche da una grossa fetta della comunità venatoria. Nella caccia in scatola, animali come tigri o leoni vengono infatti esclusivamente allevati, spesso in maniera intensiva, solo per essere uccisi in piena comodità. Caccia che avviene infatti, appena raggiunta l’età desiderata, all’interno di recinzioni davvero molto piccole, che rendono quindi estremamente semplice il lavoro del cacciatore e praticamente impossibile la fuga dell’animale, chiuso appunto all'interno di una "scatola". Questo tipo di caccia viene duramente criticato anche da molte organizzazioni e gruppi di cacciatori, poiché considerata non etica, sleale e brutale, visto che l’animale cacciato non ha alcuna possibilità di fuga. Diversi Stati, come alcuni degli USA, hanno perciò vietato o limitato in maniera molto più rigida la caccia in scatola oppure l’esportazione e l’importazione di trofei animali ottenuti in questo modo.
E tutto questo e molto altro, a Dortmund, era oggetto di vendita principale del famigerato padiglione 8.
Il padiglione 8
All’interno del complesso c’è un padiglione in particolare che viene spesso nominato dagli ospiti della fiera. È il numero 8 ed è famoso per essere il luogo in cui sono presenti molte tra le più importanti agenzie di caccia provenienti da tutto il mondo, pronte a offrire viaggi a chiunque voglia cacciare animali, anche protetti, in ogni angolo del Globo. Appena entrati per chiedere informazioni, abbiamo subito incontrato una persona che ci ha confidato di conoscere un’agenzia dove è possibile giocare a una versione molto particolare e «divertente» della “ruota della fortuna”. In palio non ci sono però ricchi premi in denaro, ma la possibilità di uccidere gratuitamente un animale scelto dal caso. «Giri questa ruota e l’animale che ti esce per te è gratis», ci ha raccontato con entusiasmo.
Le agenzie di viaggi specializzate nei safari di caccia, a un primo sguardo, non sono molto diverse dai classici tour operator a cui siamo abituati quando prenotiamo una vacanza. Si chiamano “outfitters” e, di fatto, vendono vacanze su misura in base alla disponibilità economica che includono dai trasporti all'alloggio, idromassaggio compreso. Ma l’obiettivo finale è chiaramente uno solo: quello di uccidere gli animali desiderati scelti da un vero e proprio menù.
In alternativa «puoi anche accordarti per un forfait – precisa però un cacciatore – tu gli dici per esempio "voglio uccidere tot animali" e loro ti fanno un prezzo sul totale». E noi ci siamo seduti a parlare con i venditori degli stand che promuovono la caccia al trofeo. Lo abbiamo fatto con gli stand di Turchia, Spagna, Argentina e per l’amatissima Namibia, chiedendo di mostrarci tutte le varie tipologie di offerte che si possono acquistare.
Tra un bicchiere di vino locale e una bevanda gassata offerti dai venditori, abbiamo scoperto per esempio che l’uccisione di un “semplice” uccello generico e non particolarmente protetto può essere venduta a soli 5 euro, cacciare un bufalo può costare anche 8000 dollari, mentre un leopardo arriva anche a 20.000. E non serve saper sparare o avere esperienza con la caccia: in Namibia, per esempio, tutti possono farlo anche senza aver mai toccato un’arma prima.
«Quando arrivi da noi ti insegno io. È facile, basta un giorno di esercizio e poi puoi sparare agli animali», ci ha garantito un giovane venditore molto gentile. «In Namibia non servono particolari licenze di caccia. Se sai sparare e paghi per loro è uguale», ci aveva infatti già anticipato un cacciatore molto esperto. Basta quindi un po’ di esercizio e si può liberamente andare nella savana a sparare a zebre, ghepardi, giraffe o altri animali ancora più ambiti e costosi. Un elefante africano, per esempio, può raggiungere la cifra di oltre 45.000 dollari, mentre l’uccisione di un rarissimo rinoceronte nero, tra le specie a maggior rischio estinzione a mondo, può costare addirittura ben 350.000 dollari.
Ma se sull’uccisione di "feroci carnivori" sono più o meno tutti d’accordo, con alcuni grandi e pacifici erbivori iniziano a emergere sfumature e conflitti etici anche tra gli stessi cacciatori, talvolta. Ogni cacciatore traccia infatti il suo personalissimo confine su chi ha diritto di vivere e chi no, talvolta per puro piacere, altre per gusti personali. «Non sparerei mai a un elefante, quelli mi piacciono – sottolinea un cacciatore texano, arrivato a Dortmund con tutta la famiglia, compresi i bambini già molto esperti nella caccia al cervo – Anche i rinoceronti mi piacciono, non li ucciderei, nemmeno giraffe o zebre».
Per altri è invece una questione legata più alla superstizione, soprattutto per i più tradizionalisti europei. «Abbiamo visto che ci sono tante persone che cacciano gli elefanti – ci confidano padre e giovane figlio, entrambi cacciatori – Non riusciamo a capirli. Costa troppo e poi porta sfortuna: ci sono tanti cacciatori che dicono: "chi caccia un elefante non vivrà a lungo"», ci ha detto con tono piuttosto preoccupato e seccato.
Cosa succede una volta ucciso un animale
Una volta ucciso, l’animale viene lavorato e trattato fin da subito con sostanze che permettono di conservarne l’aspetto per essere poi preparato in modo da mantenere la postura e l'espressione più desiderata. Molti outfitters, infatti, offrono nel prezzo anche il servizio del tassidermista, ovvero la persona incaricata a svolgere le operazioni di imbalsamazione e conservazione. Il cacciatore può quindi tornare presto a casa e, nei mesi successivi, avverrà comodamente la spedizione del tanto desiderato trofeo.
L’intero processo, però, dipende dalle legislazioni dei singoli paesi. Alcuni, infatti, consentono l’importazione o l’esportazione di tutti gli animali cacciati, altri ammettono solo alcune specie. E un ruolo molto importante, in questo senso, lo svolge la CITES, ovvero la convenzione sul commercio internazionale di specie selvatiche a rischio di estinzione, che ha lo scopo di vigilare, autorizzare e regolamentare il commercio globale di piante e animali selvatici per evitare che ciò ne causi l’estinzione. I singoli Paesi possono poi imporre leggi più stringenti su l'esportazione, l’importazione e la riesportazione dei trofei a seconda delle specie.
«In Argentina il governo concede solo dieci licenze l’anno per i puma e solo due per la caccia sportiva. Ma se ci sono puma ovunque?! – ci ha spiegato un po’ stizzito un venditore – E poi non te li fanno portare in Italia. E a cosa serve quindi cacciarli? I politici sono stupidi», ha poi sentenziato. La CITES elenca quindi le specie di animali selvatiche che possono essere commercializzate, limitate o vietate in base alla loro vulnerabilità e al rischio di estinzione. Sono suddivise in Allegati (A, B, C e D) che includono le specie a seconda del loro stato di conservazione e del livello di protezione necessario.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, i trofei sono considerati “oggetti personali e domestici” secondo l’articolo 7.3 del Regolamento CE n. 338/97 del Consiglio. Per l’importazione e l’esportazione di trofei di caccia delle specie elencate nell’Allegato A del CITES, quindi, sono richiesti un documento di esportazione del paese di origine e un permesso di importazione rilasciato dalle autorità degli Stati membri dell’UE.
Per ottenere il permesso, in Italia, è sufficiente dimostrare che l'animale sia stato cacciato legalmente e allegare la documentazione che ne attesta la provenienza. Per l’importazione e l’esportazione di trofei di caccia delle specie elencate nell’Allegato B, invece, è generalmente richiesto solo un documento di esportazione CITES dal paese di origine. Solo per quanto riguarda gli elefanti africani, i rinoceronti, gli ippopotami, le pecore argali, i leoni africani e gli orsi polari, invece, viene richiesto un vero e proprio permesso di importazione.
Il ruolo dell’Europa e dell’Italia
La caccia al trofeo, a differenza di quello che si tende pensare, non coinvolge esclusivamente ricchi cacciatori americani amanti delle armi. Anche l’Europa e l’Italia svolgono un ruolo molto importante. Secondo un dettagliato report redatto da Humane Society International/Europe, una delle più grandi organizzazioni di protezione animali al mondo, l’Unione Europea è il secondo più importante importatore di trofei dopo gli Stati Uniti.
Tra il 2014 e il 2018, i paesi dell’UE hanno infatti importato quasi 15.000 trofei di caccia appartenenti a 73 specie protette a livello internazionale, una media di quasi 3.000 trofei ogni anno, tra cui leoni, elefanti africani e rari rinoceronti neri a un passo dall'estinzione. M sono stati importati anche zebre, ghepardi (primi al mondo con 297 animali) e orsi polari, sempre più minacciati dalla crisi climatica.
Germania, Spagna e Danimarca contribuiscono con il 52% di tutti i trofei importati e nello stesso periodo, in UE, sono arrivati anche trofei ottenuti da ben 889 leoni africani, 229 dei quali uccisi in libertà proprio come Cecil.
Durante questi cinque anni, l’Italia ha invece importato 322 trofei di caccia di 22 specie di mammiferi elencate nelle liste CITES, come leopardi africani (29), orsi polari (3), lupi grigi (2), ghepardi (1) e antilope addax, considerata in pericolo critico di estinzione dalla IUCN (1). In particolare, l’Italia è risultata essere il primo importatore UE di trofei di ippopotamo (ben 145) e il quarto più grande importatore di trofei di leoni africani di origine selvatica. Inoltre, il nostro paese ha svolto un ruolo significativo a livello UE anche nel commercio di trofei di elefanti africani, essendo il quinto importatore UE per questa specie.
Ma l’Italia è anche uno dei cinque paesi ad aver importato almeno un trofeo di rinoceronte nero, un’altra specie considerata “In pericolo critico” secondo la La Lista Rossa dell’IUCN, contribuendo al 17% delle importazioni europee di questa specie. L’analisi completa di HSI sui dati commerciali della CITES mostra che una media di 2.982 trofei vengono importati dall’UE ogni anno, un numero che equivale a più di 8 trofei ogni giorno. I numeri delle importazioni di trofei sono addirittura cresciuti di quasi il 40% tra il 2014 e il 2018, nonostante i sondaggi di opinione mostrino chiaramente che la stragrande maggioranza dei cittadini dell’UE (oltre l’80%) si oppone alla caccia ai trofei e vuole porre fine alle importazioni di questi animali.
Sembra quindi evidente che il ruolo dell’Europa nell’industria della caccia al trofeo sia piuttosto sottostimato e sottovalutato dalla maggior parte delle persone. E viene quindi piuttosto spontaneo domandarsi, in un periodo di grandi stravolgimenti ambientali, crisi ecologiche e nel bel mezzo di una oramai conclamata sesta estinzione di massa causata dalle attività umane, come sia possibile che mentre i governi e istituzioni internazionali dichiarano apertamente di voler arrestare il declino della biodiversità, si permetta ancora di cacciare animali protetti e a rischio estinzione.
La risposta a questa domanda è estremamente complessa e l’esistenza stessa della caccia al trofeo poggia le sue fondamenta anche su antichi retaggi socio-culturali molto radicati e profondi nella storia, tuttavia sono principalmente due le motivazioni con cui si tenta di legittimare quest’attività ormai anacronistica e considerata dalla maggior parte della società occidentale del tutto inutile e crudele.
La caccia al trofeo può essere utile?
La narrazione portata avanti dalle associazioni di categoria, dai sostenitori della caccia al trofeo e da parte della comunità scientifica è che quest’attività rappresenta uno strumento di conservazione essenziale che, se condotto "eticamente" e in maniera sostenibile, aiuta a proteggere la fauna selvatica in via di estinzione e contribuisce economicamente a sostenere le comunità più povere che vivono in aree marginali, dove il turismo tradizionale o fotografico è assente.
Ucciderne uno per salvarne cento, finanziando così aree protette che altrimenti finirebbero in mano ai bracconieri e aiutando le comunità dei paesi in via di sviluppo a prosperare. Questo tipo di approccio viene spesso riassunto nel motto “if it pays, it stays”, ovvero se un animale ha un cospicuo valore economico conviene a tutti preservarlo nel tempo, garantendo quindi anche la sopravvivenza della specie. Ma slogan a parte, è davvero così?
Esistono esempi, studi e singoli casi in cui la caccia al trofeo, se ben gestita, è riuscita a contribuire in maniera significativa sia alla conservazione delle specie che alle comunità locali. Si è dimostrata utile in alcune aree della Namibia o della Tanzania e per la ripresa numerica di rinoceronti bianchi in alcune zone un tempo in mano ai bracconieri, tuttavia queste – numeri alla mando – sono eccezioni e non la regola e soprattutto rappresentano un modello gestionale instabile e non duraturo, destinato prima o poi a scomparire.
La maggior parte dei report e degli studi, anche quelli redatti dalla IUCN che considera la caccia “ricreativa” uno strumento di conservazione, mostrano risultati molto poco significativi, altalenanti e non duraturi nel tempo, sia dal punto di vista conservazionistico che economico. Laddove i livelli di gestione sono simili, i risultati da un punto di vista della conservazione ottenuti dalla caccia sono sempre inferiori a quelli dei più classici parchi nazionali o delle aree protette. Le aree di caccia sono per esempio meno resistenti alla corruzione e alle pressioni esterne rispetto ai parchi nazionali e avranno quindi un ruolo sempre minore nelle future strategie di conservazione.
L’impatto positivo della caccia al trofeo è perciò parecchio gonfiato e sovrastimato dai cacciatori. Se è vero che un elefante morto può generare oltre 40 mila dollari, si stima, per esempio, che quello stesso elefante potrebbe generarne oltre 23 mila l’anno solo grazie a dei classici tour fotografici per i turisti, arrivando a valere 1,6 milioni di dollari nel corso della sua vita. Una cifra che supera infinitamente quella che può pagare il cacciatore una sola volta, per un singolo safari.
Chiaramente, non tutte le aree in cui si caccia sono idonee o appetibili per dei safari fotografici, ma lo stesso vale anche per le stesse riserve di caccia. I cacciatori di trofei spesso seguono le mode, che sia la specie o l’area del momento, e comportandosi da lobby quale sono, possono decidere di punto in bianco di abbandonare completamente un paese o una zona di caccia a favore di un altra, facendo così crollare in un colpo solo l'intero sistema gestionale.
Per di più, non è ancora nemmeno del tutto chiaro quale potrà essere l’impatto a lungo termine della caccia sulle dinamiche ecologiche e di popolazione di molte specie. I cacciatori vogliono quasi sempre uccidere solo maschi, solitamente quelli più belli, in salute e maestosi. Questo eccesso di selezione potrebbe quindi interferire pesantemente, per esempio, col rapporto tra i sessi e con la variabilità genetica di alcune popolazioni e, anche se mancano dati, alcuni casi studio hanno prodotto risultati che vanno proprio in questa direzione.
Persino l’impatto economico positivo, laddove esista davvero, sembra essere in linea generale del tutto irrisorio. Quasi sempre le entrate della caccia al trofeo risultano insignificanti sia per la conservazione che per il sostegno alle popolazioni locali. Poco o nulla resta infatti alle comunità locali e la maggior parte dei soldi si sposta esclusivamente tra il cacciatore, le guide e chi gestisce le riserve, quasi sempre private. Il settore della caccia occupa quindi molto spazio senza però generare benefici socio-economici corrispondenti.
In molti paesi, inoltre, una buona governance fondata su criteri scientifici è completamente assente dalla quasi totalità delle aree in cui si caccia e chi detiene il controllo del sistema non è disposto a mollare questo potere e ad accettare modifiche, che significherebbero inevitabilmente rinunciare ad alcune entrate o al controllo. La caccia al trofeo arricchisce, praticamente sempre, pochi individui, quasi mai quelli direttamente coinvolti nella conservazione, i governi o le comunità locali.
Allargando il quadro, le entrate della caccia sono insignificanti e la quasi totalità del denaro serve a malapena a coprire le tasse governative e ad arricchire l'industria della caccia. Uno studio sulla caccia al trofeo in Tanzania, ha per esempio dimostrato che solamente il 3% arriva alle comunità locali e negli otto paesi africani chiave per la caccia al trofeo, i cacciatori contribuiscono al massimo allo 0,03% del PIL.
Evidentemente, se dovessero sparire le riserve di caccia da un giorno all’altro e senza alternative economiche o gestionali, gli effetti negativi sulla conservazione degli ecosistemi e di alcune specie potrebbero essere grandi, ma questo non significa che non possa esserci altre soluzioni. In molti paesi in via di sviluppo, per di più, i livelli altissimi di corruzione entrano prepotentemente e pesantemente anche nei sui flussi economici legati alla caccia al trofeo, sull'ottenimento dei permessi, oppure sulle quote e i controlli del numero effettivo prelievi o più in generale sui metodi e l'attività di caccia.
Risulta perciò evidente che, spogliato del suo velo difensivo, il vero volto della caccia al trofeo altro non è che un vizio narcisistico destinato a pochi individui, che non si preoccupano minimamente dell'etica, della conservazione della fauna selvatica o delle comunità locali.
L’elefante (di foresta) nella stanza
Parlando con qualsiasi cacciatore o venditore incontrato a Dortmund è impossibile non notare che il vero interesse di chi uccide per divertimento è uno soltanto: sparare, sempre di più e soprattutto contro animali di volta in volta più grossi, rari o feroci. «È stata l'esperienza più bella della mia vita, un sogno», il commento più ricorrente. alla fiera i cacciatori si sentono liberi di essere se stessi, di portare alla luce i loro sogni più reconditi; sono eccitati, perché magari hanno lavorato sodo per pagarsi questa battuta di caccia, e pagano tanto per solo motivo: cacciare un animale grosso.
Cacciare è molto più che un hobby, è un brivido primordiale che genera un piacere ineguagliabile: «È una botta di adrenalina. Non c'è droga, alcolico o altro che tenga e che ti fa sentire come ti senti quando uccidi un animale», ci ha confessato il cacciatore texano. Nessuno sembra avere la benché minima idea di quali possano essere le ripercussioni – positive o negative che siano – della caccia al trofeo, cosa sia una categoria di minaccia IUCN o se quanto contribuiscano i suoi soldi sulle comunità locali.
Del resto, l’esempio più lampante dell'idea più diffusa tra i cacciatori di trofei era proprio lì alla Jagd&Hund, in bella mostra sotto gli occhi di tutti. Nonostante le rigide policy etiche dichiarate dagli stessi organizzatori della fiera, all’interno del famigerato padiglione 8 era possibile acquistare anche la possibilità di cacciare un elefante di foresta africano, una specie talmente rara e minacciata che la stessa Unione Europea ne ha vietato qualsiasi tipo di importazione proprio per non alimentare la caccia.
Per lungo tempo questo elefante è stato considerato "solamente" una sottospecie del cugino di savana. Studi approfonditi sul DNA hanno però dimostrato che i due pachidermi si sono separati da almeno 2-7 milioni di anni. Oggi è quindi considerata una specie a parte a tutti gli effetti (Loxodonta cyclotis), che vive esclusivamente nelle ultime fitte foreste dell'Africa centrale. Il suo areale è estremamente ristretto ed è limitato a pochi paesi dell’Africa centro-occidentale. Considerando quindi la sua rarità, è considerata la specie di elefante più minacciata in assoluto e la IUCN l'ha per questa inserito nella categoria ”In pericolo critico”, quella immediatamente precedente all'estinzione definitiva.
Proprio per questo, in tutti paesi in cui ancora sopravvive non è possibile cacciare legalmente questa specie e per contribuire alla sua tutela, l’Europa ne ha vietato qualsiasi tipo di importazione di ossa o parti. Questo divieto è molto importante perché, in realtà, la caccia è stata vietata in tutti paesi tranne uno, il Camerun. E anche a Dortmund era possibile acquistare la possibilità di cacciare questi rarissimi elefanti, nonostante l’Europa ne abbia bandito l’importazione proprio per motivi di conservazione.
È evidente, alla maggior parte dei cacciatori non interessa minimamente la conservazione della natura, come può quindi essere tutto questo un efficace e duraturo strumento di conservazione per le specie a rischio?
Si può fermare la caccia al trofeo?
Manifestazioni come la Jagd&Hund di Dortmund sono fortemente criticate da chi chiaramente non è appassionato di caccia e non si rivede in questa visione utilitaristica della vita e vengono sempre più spesso giudicate negativamente anche dal punto di vista etico, poiché considerate una vera e propria regressione rispetto alle conquiste raggiunte in materia di tutela e conservazione degli animali.
La caccia al trofeo, inoltre, come abbiamo visto è spesso associata a pratiche illegali e poco regolamentate, che mettono a rischio la sopravvivenza stessa delle specie e generano sofferenza inutile e superflua per gli animali. Ma per quale motivo è quindi ancora possibile partecipare a eventi del genere? Il lungo viaggio che abbiamo affrontato tra outfitters, espositori di armi, mostre cinofile e persone disposte a spendere cifre esorbitanti pur di uccidere esseri viventi da esporre nei propri salotti, ci ha dimostrato che si tratta di un universo complesso, variegato ma fortemente influenzato da interessi economici e politici.
Come spesso accade, anche per quanto riguarda la Jagd&Hund, sono proprio questi gli elementi che portano a privilegiare gli interessi e la soddisfazione di una minoranza di cacciatori a discapito della tutela e del benessere degli animali selvatici e della biodiversità, oltre che dell'opinione pubblica in generale. Tutto ciò avviene nonostante la normalizzazione della caccia al trofeo possa avere anche un effetto negativo sulla percezione dei più giovani nei confronti degli animali selvatici, trattati ed esposti come oggetti e uccisi per semplice divertimento in un periodo storico in cui bisognerebbe invece promuovere e abituarsi a condividere il Pianeta con gli altri esseri viventi, ognuno dotato dei propri desideri e bisogni e meritevole di tutela e rispetto.
Quindi, cosa si può fare? Una prima soluzione potrebbe nascere proprio dall’oggetto del desiderio dei cacciatori: il trofeo. Il divieto totale di importazione ed esportazione di trofei di tutte le specie minacciate, valido per tutti gli stati, potrebbe finalmente mettere la parola fine a questo crudele passatempo. E, infatti, in alcuni paesi si stanno vedendo sviluppi in questa direzione. Anche in Italia, nel marzo del 2022, l’Intergruppo Parlamentare per i Diritti degli Animali, ha presentato due interrogazioni parlamentari alla Camera dei Deputati al Senato della Repubblica, chiedendo di introdurre un divieto di importazione ed esportazione dei trofei di caccia ottenuti da animali appartenenti a specie protette e minacciate di estinzione.
Il 12 ottobre 2022, le principali associazioni per la protezione degli animali hanno depositato in Parlamento Europeo un dossier chiedendo il divieto di importazione di tutte le specie protette dalla CITES. Questo divieto, uguale per tutti, potrebbe dare un colpo decisivo al business della caccia al trofeo, e rappresenterebbe la regolamentazione più equa rispetto al commercio internazionale.
Resta però fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze negative della caccia al trofeo e sull’importanza della conservazione della biodiversità tutta. Ciò può avvenire solo attraverso campagne di informazione e di educazione nelle scuole, nei parchi naturali e attraverso i media.
In conclusione, la riduzione dell’impatto della caccia al trofeo richiede necessariamente l'adozione di misure a livello normativo, ma anche la sensibilizzazione, in particolare verso le nuove generazioni. Solo attraverso un approccio sistemico e globale sarà possibile garantire la sopravvivenza e il benessere animale, impedendo che innocenti esseri viventi muoiano per diventare soprammobili nelle case di ricchi cacciatori del tutto privi di empatia.