Sono passati 25 anni da quel lunedì 11 gennaio 1999, quando Fabrizio De André se ne andava lasciando dietro di sé una discografia destinata a fare la storia del cantautorato italiano. Sfociando, talvolta, anche nella letteratura. Una vita, la sua, che ha trovato ampio spazio, se non tutto, nei testi delle canzoni che ce lo hanno descritto a cavallo dei decenni, dai desideri rivoluzionari dell’età giovanile alle riflessioni dell’uomo adulto, cresciuto tra i vicoli di Genova in mezzo agli ultimi, ai dimenticati. E, a quanto emerge dai suoi testi, anche tra gli animali.
Il legame di "Faber" con il mondo animale non è infatti un segreto, tra chi sostiene che fosse un grande amante dei gatti e la diretta testimonianza del figlio Cristiano che al Corriere della Sera ha rivelato: «Papà mi voleva veterinario per occuparmi dell’azienda di Tempio Pausania». La testimonianza diretta arriva però dai suoi testi in cui l'iconico cantauatore ha spesso inserito riferimenti agli animali, utilizzandoli come simboli o metafore per esprimere varie sfaccettature della vita e delle relazioni umane. Dai brani più noti a quelli che non hanno conosciuto la ribalta.
In “Amico fragile” (1975) De André scrive: «Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane. Il mio è un po' di tempo che si chiama Libero», mentre nella "Canzone di Marinella” (1967) si dà spazio ai gatti: «Il mio gatto mi attraversa la stanza, è una fiamma d’amore, una freccia, una lancia». Con “Il gorilla” (1968), invece, il cantautore dedica un intero brano a una figura animale usata chiaramente come metafora.
Altri riferimenti ai cani in “Un matto” (1971) «E un giorno venne il cane, vide la scimmia con il gatto in braccio e subito abbaiò», in “La cattiva strada” (1973) «Con l’orecchi teso, come il muso del cane, come il muso del cane, come il muso del cane», in “La ballata dell’eroe” (1978) «Muoio da eroe, stritolato dalle porte del metrò, quando un cane mi vedrà cadere mi farà l’ultimo tiro di catena» e in “Sally” (1978) «Sally era una ragazza che rubava ai ricchi per dare ai poveri il cuore come un cane»
Diversi i riferimenti anche al mondo degli uccelli: in “Le nuvole” (1990) «Era tanto tempo fa, come adesso mi ci ritrovo, sulla terra con gli uomini e in cielo con gli uccelli», in “Ho visto Nina volare” (1996) «Ma era sorda però e non sentì il rumore e lei che mi amava volò tra le onde come un gabbiano grande», in “Khorakhanè” (1996) «Khorakhanè aveva una giubba di velluto, le mani di bambù e il cuore d’uccello» e, infine, in “Canto del servo pastore” (1996) con «C'è un corvo che si fa le unghie con l’argento sul crinale del monte da mattina a sera».
C’è poi il controverso e discusso passaggio di “Crêuza de mä” (1984), una canzone che racchiude in sé l’essenza stessa di Genova. Quando, elencando le pietanze di “Dria” (Andrea) pronte a riempire le pance vuote dei pescatori, De André cita testualmente un «paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi», in italiano «pasticcio in agrodolce di lepre dei tetti» con ovvio riferimento a quando, in tempi di povertà, non era raro cibarsi dei gatti. Uno spaccato crudo letto con gli occhi della contemporaneità, ma una scelta che purtroppo era diffusa nei secoli passati.