Un sentiero nel bosco, immerso tra le querce. Nient’altro che il rumore delle scarpe sulla terra battuta. «Questa è l’alta valle dell’Aniene», spiega Piero, passeggiando per Vallevegan «tra la collina e la montagna, con i suoi ruscelli e animali selvatici». «L’altro giorno ho incontrato e filmato per la prima volta un quercino – continua – e, pur vivendo da anni in questo posto, non sapevo che specie fosse prima di chiedere a un esperto». Il Comune più vicino, Rocca Santo Stefano, è a quattro chilometri, percorribili solo a piedi; la Grotta dell’arco, con le sue pitture rupestri dell’Età del rame, dista meno di un chilometro. Il confine del Parco regionale dei monti simbruini è a poche ore di cammino in direzione est.
Da un lato all’altro del sentiero, capre e pecore, al di là di recinti, e uno spazio per i cani fobici. «Vallevegan è il primo rifugio antispecista italiano – spiega il presidente della fondazione, Piero Liberati – e un luogo di liberazione animale». Nasce nel 2005-2006 per iniziativa di compagni e attivisti e il fondatore, originario di Torre del Greco (Napoli), proviene da anni di militanza nei campi antibracconaggio. «Al tempo, quasi vent’anni fa, il movimento di liberazione animale era molto attivo: soccorrevamo animali di ogni tipo, esemplari destinati a laboratori o macelli, sequestrati dalla forestale: capre, maiali, mucche, cani e gatti, porcellini d’india, conigli, galline… e non sapevamo dove metterli se non a casa nostra. Occorreva un posto, un posto che appartenesse a loro. Così prendemmo un pezzetto di terra, una roulotte. Eravamo sei-sette. Era una comune, al principio».
Il verso di un gallo irrompe durante l'intervista ed è lo stesso Piero a cogliere l'occasione per raccontare l’ambiente circostante perché il rifugio, da qualche tempo, è chiuso alle visite. «Questo è un luogo che appartiene agli animali e alcuni di loro, anche durante incidenti e momenti di tensione, hanno dimostrato di non volere rapporti con l’uomo». Non è una scelta di eremitaggio, chiarisce, «per quanto mi stia inselvatichendo (ride)», ma di rispetto degli individui che abitano questo posto.
All’interno dei sei ettari (60 mila metri quadrati) di Vallevegan vivono un centinaio di animali domestici e Piero abita un vecchio rustico di 200 metri quadri dove cucina a legna. Con lui c’è Martina, la sua compagna, e una rete di una decina di volontari. «Martina non vive qui. Avrà cura di un secondo rifugio che inauguriamo nei prossimi mesi. È una novità: posso annunciare che Vallevegan sta per raddoppiare. Siamo in una fase avanzata di trattativa. Prendiamo una seconda tenuta in provincia di Viterbo: altri cinque ettari, per progetti paralleli, compresa l’accoglienza umana e i gatti malati di Felv (virus della leucemia felina) per i quali ci sono poche strutture in Italia».
Come è possibile che una sola persona, al netto dei volontari, abbia cura di un centinaio di individui, senza contare varie colonie feline e gli animali selvatici della zona? «Il posto aiuta molto – risponde Piero – e quando ho bisogno di aiuto, se ho un problema, so chi chiamare. C’è una rete di veterinari, presenti al cento per cento, e Martina è infermiera veterinaria. La comunità qui intorno è fortissima».
Se alle origini Vallevegan era percepita male dagli abitanti dei paesi limitrofi, i quali immaginavano un luogo per «drogati e prostitute», oggi Piero racconta di un forte spirito solidale e mutualistico. Resta valida, tuttavia, la prima regola di sempre: «Mai fare il passo più lungo della gamba, non prendere un animale in più se non puoi mantenerlo».
«Questo è un luogo di liberazione – ripete Piero – ma non un santuario. Non mi piace la parola santuario: è un termine religioso, e qui non c’è niente di spirituale. Vallevegan non è un "credo" né una setta: non ci sono guru né santoni. In passato è stato facile cadere nell’equivoco». Vallevegan è una "a-fattoria" dove gli animali non sono fonte di reddito né di cibo. E un luogo che secondo il suo fondatore funziona ed è sostenibile seppur basato sulle sole donazioni dei sostenitori e senza aver mai usufruito di soldi pubblici. «Le istituzioni non aiutano i rifugi – dichiara Piero – e il Comune di Rocca Santo Stefano è ostile: non è disponibile neanche a sistemare una strada, per quanto siamo noi a prenderci cura dei randagi, a nostre spese. Sono un anarchico, o lo ero, comunque un libertario, e tendo a non chiedere. Ma se hai un rifugio devi pensare anzitutto a loro, agli animali, essere intelligente e conrontarti con persone diverse da te».