Quello dei cani randagi è un mondo complesso che si interseca in maniera sempre diversa con l'ambiente, la popolazione umana, le legislazioni territoriali e gli aspetti culturali che caratterizzano i territori. Risulta quindi evidente il valore di queste variabili nell'ottica di intervenire in maniera mirata nei diversi contesti.
Un esempio emblematico di questa complessità è l'India, dove vivono più di 59 milioni di cani liberi – tra padronali, randagi e ferali – e oltre un miliardo di esseri umani, i quali si relazionano alle specie domestiche e selvatiche secondo schemi, abitudini e tradizioni completamente diverse rispetto a ciò a cui siamo abituati in Europa.
Nel tentativo di trovare una chiave di lettura che permetta di raggiungere una gestione multidisciplinare al randagismo, un gruppo di ricercatori della True Conservation Alliance Foundation di Bangalore ha condotto uno studio nel quale vengono analizzati molti aspetti del fenomeno, tra i quali viene nominato anche l'impatto di una questione con cui in Italia abbiamo poca familiarità: gli attacchi agli esseri umani e la predazione delle specie protette.
Per comprendere le soluzioni proposte, però, bisogna prima fare un passo indietro e addentrarsi gradualmente nell'ambiente e nella storia del rapporto tra esseri umani e cani nell'enorme e complesso paese asiatico di cui stiamo parlando.
La complessità del fenomeno e le differenze tra realtà urbane e rurali
Innanzitutto è importante prendere atto del fatto che vi è un'enorme differenza tra i cani randagi – fortemente dipendenti dall'uomo dal punto di vista alimentare – e i cani ferali, i quali si sono invece quasi completamente allontanati dagli esseri umani e hanno trovato soluzioni indipendenti per le proprie necessità di riparo e di alimentazione.
«Queste due categorie non sono totalmente rigide. Un soggetto, infatti, nell'arco della sua vita può passare da una condizione all'altra – spiega Laura Arena, veterinaria esperta in benessere animale e membro del comitato scientifico di Kodami – In Italia, il fenomeno dei cani ferali quasi non esiste e il randagismo è invece fortemente dipendente dal ruolo dell'uomo. Siamo più abituati ad avere a che fare con i cani randagi propriamente detti e, specialmente in alcune zone del Paese, con i cani padronali vaganti ovvero i soggetti liberi di muoversi pur avendo un essere umano di riferimento e che ne dovrebbe essere responsabile».
L'India è un paese con una superficie di poco inferiore rispetto all'intera Unione Europea e, al suo interno mostra macroscopiche differenze climatiche, ambientali e culturali. Negli ambienti rurali dell'Himalaya, il rapporto tra le popolazioni locali e i cani randagi è estremamente diverso rispetto, ad esempio, alle zone urbane di Bombay, Calcutta e New Delhi.
Basti pensare che, secondo quanto descritto nel report, il 63% dei soggetti che vivono all'interno dei contesti rurali indiani non dipendono dall'uomo. La percentuale diminuisce invece in città, dove è più diffusa l'abitudine, da parte delle persone, di nutrire i cani liberi, i quali restano quindi più spesso dipendenti dagli esseri umani.
Secondo i ricercatori, la dieta dei cani ferali è uno degli aspetti più controversi e che richiedono una maggiore urgenza gestionale: «Un cane di taglia media può arrivare a consumare circa 70 chili di carne all'anno. Una quantità che, moltiplicata per i 59 milioni di cani – tra liberi, randagi e ferali – potrebbe arrivare a oltre 4 milioni di tonnellate di fabbisogno alimentare annuo».
Secondo un ulteriore studio condotto dall'Ashoka Trust for Research in Ecology and Environment, e pubblicato nel dicembre del 2017 su Animal Conservation, i cani randagi indiani sono in grado di predare 80 specie diverse di animali selvatici, di cui 31 sono considerate a rischio di estinzione secondo la lista rossa della IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) e il 48% di queste predazioni avvengono all'interno di aree protette, con conseguenze drammatiche in termini di perdita della biodiversità.
Gli aspetti culturali del fenomeno: la protezione degli animali selvatici, la diffusione della rabbia e gli attacchi all'uomo
Se quello della gestione faunistica sembra già di per sé un aspetto piuttosto complesso, ad esso vanno aggiunti anche il rischio di ibridazione con altre specie di canidi selvatici, come ad esempio i lupi e i cuon.
I ricercatori della Conservation Alliance Foundation sostengono inoltre che nell'analisi non si possa escludere l'effetto dell'Animal Birth Control (ABC), una normativa nazionale promossa dell'Animal Welfare Board of India ed entrata in vigore nel 2001.
Prima di questo momento, la gestione dei randagi era stata portata avanti per decenni seguendo le stesse strategie utilizzate in molti altri paesi del mondo, ovvero attraverso periodiche campagne di abbattimento. La nuova legge, invece, con l'obiettivo di tutelare gli animali randagi, ne vieta l'abbattimento, fatta eccezione solo dei casi in cui non vi sia alcuna speranza di sopravvivenza per il soggetto.
Sebbene l'obiettivo iniziale fosse quello di tutelare della specie, secondo i ricercatori negli ultimi 20 anni la ABC ha portato ad un enorme aumento del numero di cani, favorendo inoltre la diffusione della rabbia. «Ad oggi l'India è una delle aree del mondo in cui questa malattia è ancora endemica – si legge nello studio – Ciò va relazionato anche all'enorme numero di animali domestici che si aggirano liberamente per le strade senza ricevere cure adeguate, nonostante le ferite, il dolore o le malattie».
Come se non bastasse, bisogna aggiungere anche un ulteriore aspetto tutt'altro che secondario, ovvero le aggressioni ai danni degli esseri umani – in particolare bambini – da parte dei cani liberi. Secondo quanto riportato nella ricerca, infatti, solo a Sitapur, un distretto dello stato dell'Uttar Pradesh, nel 2018 sono morti 13 ragazzi tra i 5 e i 12 anni in seguito ad aggressioni da parte dei soggetti vaganti: «Questo elemento dimostra il fallimento dell'attuale gestione ed è chiaro che le norme vigenti in India richiedano una modifica che tuteli ogni specie allo stesso modo», commentano i ricercatori.
Le proposte dello studio: «Registrazione dei cani di proprietà e legalizzazione dell'abbattimento controllato»
«L‘Animal Birth Control considera i cani ferali come animali da proteggere, senza però evidenziare le complessità del contesto in cui ci troviamo, finendo per causare una violazione dei principi di tutela della biodiversità – spiegano i ricercatori – In altri paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, l'Australia, parte dell'Europa e del Sud America vi sono normative che prendono in considerazione il principio ecologico della capacità di carico dell'habitat e, in caso di necessità, non è escluso l'abbattimento delle specie considerate pericolose. In India, invece, assistiamo ad una sorta di "animalismo specista", che assicura al cane una tutela maggiore rispetto a quella che viene offerta agli esseri umani, i quali rischiano di contrarre la rabbia o venire aggrediti. Allo stesso tempo, mette da parte la tutela dei selvatici predati, tra i quali vi sono anche specie protette».
Le proposte dei ricercatori, quindi, riguardano una serie interventi rivolti prima di tutto a identificare i cani vaganti che hanno un referente umano. «I responsabili devono occuparsi dell'alimentazione e della registrazione dei soggetti presso un apposito ufficio governativo. I cani devono essere condotti in sicurezza e i rispettivi umani devono assumersi la responsabilità dei danni inferti alle persone, al bestiame o agli animali selvatici. Inoltre bisognerebbe analizzare ulteriormente il fenomeno della predazione di animali selvatici e, se necessario, intervenire attraverso l'abbattimento controllato dei soggetti considerati pericolosi per le altre specie».
Riguardo le conclusioni dei ricercatori indiani, Laura Arena commenta: «Quello della predazione verso le specie selvatiche è un argomento spinoso che merita un'attenta indagine capace di fornire dati sulla prevalenza degli episodi ed una quanto più attenta analisi del rischio per la minaccia alla biodiversità – conclude Laura Arena – D'altro canto, le strategie d'intervento per la gestione di una popolazione canina di tale entità numerica sono davvero di difficile integrazione e coordinamento tra le diverse aree del Paese. Ciononostante le esperienze pregresse e la stessa ecologia ci spiegano come gli abbattimenti massivi non siano certo una soluzione efficace e nemmeno sostenibile».