Conoscere la realtà dei cani sin da piccola mi aveva trasmesso da sempre la voglia di comprendere cosa passasse nella loro testa e il “primo amore” non si scorda mai. Se c'è una cosa che mi è sempre piaciuto fare è stato osservarli: potevo passare ore a guardarli nelle piazze e sul lungomare della mia città e ancora oggi passo molto tempo semplicemente a guardarli. Osservo le loro interazioni, i momenti in cui semplicemente non fanno nulla o che sembra non stiano facendo niente. I cani da questo punto di vista sono stati per me compagni di vita assidui: potevo passare ore con loro come se fossi al cinema e di fronte ogni volta avevo sempre una pellicola nuova. Cercavo di capire e interpretare facendo ipotesi per comprendere le infinite sfumature della loro comunicazione e le loro intenzioni. Da bambina ho avuto la fortuna di abitare in un paese del centro Italia che ospitava cani liberi e integrati all'interno degli spazi cittadini. Era frequente vederli sonnecchiare al sole da soli o in piccoli branchi nelle piazze della città, girare sul lungomare per godersi dei momenti sulla spiaggia.
Nel mio quartiere c'era una coppia di cani, un maschio ed una femmina, che sostavano regolarmente nei dintorni delle zone che io frequentavo: la scuola e i negozi come soprattutto la macelleria, perché a tarda sera ricevevano un abbondante pasto dal proprietario. Spesso mi accompagnavano nei vari giri che facevo, nei tratti di strada per andare a danza o a scuola. Erano una presenza viva ma discreta, ben voluti da tutti, che crescendo li ho accuditi in maniera più importante quando ebbero bisogno di cure e riparo perché si affacciavano ai primi acciacchi dell'anzianità. Si spostavano con intere comitive di ragazzi anche nelle periferie di altri quartieri: avevo l’idea che ci usassero per esplorare zone dove da soli non si sarebbero avventurati ed ero certa che pur a tarda notte, di ritorno da qualche posto, li avrei incrociati da qualche parte e mi avrebbero scortata a casa.
Mi sentivo al sicuro con loro come ci si sente insieme a degli amici fidati. Poi, crescendo, il tempo per loro era sempre meno, fino a quando completai i miei studi e arrivai alla decisione che mi portò lontano dalla mia città. Ma la voglia di poter avere a che fare ancora coi cani, seppur in una metropoli tanto diversa dalla mia che non aveva cani liberi mi fece approdare in canile. Mi dissero che nella parte settentrionale della città in cui mi ero trasferita potevo trovare una struttura che ne ospitava diversi e che avevano sempre bisogno di una mano. Non mi costò nulla prendere un bus e poter fare la mia parte e così andai a visitare quel canile.
Perché non ci sono cani liberi ma solo gabbie?
Venivo da un tessuto sociale e culturale assolutamente diverso ed ero abituata a vedere cani in piccoli branchi sparsi. Anche il mio paese aveva un canile ma era uno spazio di grandi recinti, coi cani sempre a gruppi che erano abituati a rientrare nelle loro casette di cemento solo per la notte o i più attaccabrighe, al massimo, nel momento del pasto. Quello che mi ritrovai davanti quel giorno era esattamente l'opposto: ogni cane aveva il suo box, molti a scaglioni e isolati dagli altri. Mentre mi decidevo a suonare per entrare, quello che osservavo da fuori mi iniziava a riempire di tristezza. Non c'erano coppie, avevo la sensazione che nessun cane fosse amico degli altri, che quell'isolamento avesse qualcosa di profondamente innaturale e per alcuni secondi anche la sensazione che forse avevo sbagliato posto.
Davvero quel luogo era pieno di persone che volevano aiutare i cani? Mi sembrava tetro, angusto, a tratti asfissiante persino per me che ero fuori. Mi decisi a suonare perché una parte di me voleva fortemente ricredersi. Aspettai un tempo che mi parve infinito finché una signora, coperta di fango e zampate sugli abiti dalla testa ai piedi, si avvicinò al cancello chiedendomi cosa volessi. Non era affatto simpatica, aveva fretta, mi apostrofò con un fare sbrigativo e mi ascoltò quasi scocciata. Le spiegai le mie intenzioni: volevo dare una mano ma non sapevo come e quando. Mi invitò allora ad entrare per consegnarmi nelle mani di un'altra donna e allontanandosi sospirò a gran voce: «La prossima volta chiama al telefono che con tutti questi abbai nessuno sente il campanello! Potevi star lì fino a stanotte!». L'altra donna mi sorrise, annuì e mi tese la mano per stringerla. Effettivamente il frastuono degli abbai era a tratti insopportabile, spiegai che non ero abituata e mi scusai. Lei mi sorrise come per farmi capire che altri prima di me avevano ricevuto già tanti rimproveri dalla signora del cancello. Aveva l'espressione quasi materna di chi ti vuol tranquillizzare che sotto una scorza di antipatia c'era un mondo al quale poi mi sarei abituata persino nei modi.
Il primo approccio con un canile, un luogo tetro e sovraffollato
Mi portò a fare un lungo giro e parlammo più di me che dei cani. Mi mostrò il refettorio, la stanza delle coperte, i medicinali, la piccola sala riservata a quelli che non stavano bene e poi iniziamo il lungo viaggio nei corridoi. Quattro bui corridoi di box su entrambi i lati, dove ad ogni passo scorgevo un muso, un paio di zampe in piedi, un colore di mantello. Ero frastornata dagli abbai, dall'odore acre della candeggina nel naso. Mi sentivo affetta da una sindrome di cui ignoravo il nome ma davvero era tutto “troppo”, amplificato a mille in ogni senso che possedevo. Alla fine di quel tour, la signora gentile mi rivolse un ultimo sorriso e mi si parò davanti costringendomi a fermarmi nella stanza delle coperte: mi chiese quando sarei voluta tornare e con che frequenza ma, soprattutto, quali fossero le mie intenzioni. Le stavo per rispondere che avevo liberi solo i fine settimana e che avevo intenzione di tornare ma lei mi anticipò dicendomi che già solo in quel momento se avessi aiutato a piegare una montagna di coperte sarebbe stato un grande aiuto.
Non potevo crederci! Ero già dentro quel meccanismo e a malapena sapevo il suo nome. E i cani? Non mi azzardai però a fiatare e annuii senza indugio. Non avevo scuse: rifiutare sarebbe stato dimostrare di non aver reale interesse e avrei fatto una figura pessima. Iniziai il lavoro con precisione certosina e sistemai una pila infinita di trapunte, cuscini, vecchie termocoperte che sembravano essere uscite da un'altra epoca mentre pian piano scendeva la luce e persino gli abbai sembravano ormai essere un rumore di fondo e non più un tormento.
E poi l'attesa del weekend divenne trepidazione e voglia di darsi da fare
Passavo le settimane con l'idea fissa in testa, soprattutto prima di prendere sonno, di come arrivare a guadagnarmi un “buon posto” e accedere al passo successivo: poter portare i cani fuori. Ero passata a occuparmi di altri compiti basilari ma sempre necessari: rimettere a posto, mettere il cibo in ordine, pulire i corridoi e al massimo cambiare e pulire i box di degenza di alcuni cani. Sarei mai arrivata a pulire i box e poi portare fuori qualcuno degli ospiti? Perché chi invece aveva già questo ruolo e addirittura si occupava di due, tre cani mi sembrava lontano anni luce dalla situazione in cui mi trovavo. Stava diventando quasi una sfida con me stessa: una specie di gara a tappe che mi avrebbe portato all’unica cosa che volevo ma che mai e poi mai avrei potuto chiedere direttamente. Quel mondo era complesso e pieno di sfaccettature. D'altronde chi ero io per chiedere semplicemente di stare senza far nulla in un prato con qualche cane? C'era talmente tanto da sistemare che la mia richiesta sarebbe stata inopportuna.
Ma più passavano le settimane e più, con ogni scusa possibile, mi affacciavo nei corridoi e tentavo di sbirciare fra i box quelli che a prima vista avevo eletto come i cani di cui mi sarebbe piaciuto occuparmi. Mi ero già sincerata con domande generiche se se ne occupasse qualcuno. Avevo chiesto con modi falsamente indifferenti, per non destare sospetti, chi erano quei cani e che storia avessero alle spalle. Insomma: erano i cani di tutti ma di nessun volontario in particolare e in quello strano meccanismo umano, e a tratti militaresco, ero certa che prima o poi mi sarei potuta inserire e fare la mia parte. Dovevo solo avere pazienza. Il canile aveva un gigantesco prato adiacente che pregustavo nel sole e negli odori primaverili: mi vedevo già là con i cinque cagnoni che avevo adocchiato in un dolce far nulla, stesi al caldo come i cani della mia città, intenti a scacciare una mosca ogni tanto senza mai lasciarsi turbare dai rumori della strada e dal continuo andirivieni delle persone.
Un grande cane nero e i piccoli passi verso la fiducia in noi stessi
E finalmente arrivò il momento che attendevo con ansia. Ma avvenne in un modo molto difficile per me da digerire. Quel pomeriggio, complice il freddo, due volontari storici erano malati e alle 17 un tizio avrebbe portato un cane che, a detta di molti, non era un soggetto con un cuor di leone. Era vissuto fino ad allora con una persona anziana che non c'era più e, come la solita storia senza lieto fine che appartiene a tanti cani, nessuno della famiglia lo aveva preso con sé. Per me era una delle cose più tristi al mondo anche solo da immaginare ma mi aveva dato il coraggio di propormi, chiedendo semplicemente se ci fosse bisogno di me e dando la mia disponibilità.
La scena di un cane che varca la soglia di un canile dopo una vita in famiglia è qualcosa che non ha parole per essere descritta: non esistono sostantivi o aggettivi per quanto ci si sforzi per descrivere quel mix di sensazioni. Era un cane dal manto nero che che non era mai stato messo a guinzaglio: era atterrito, spaventato dagli abbai, confuso e pietrificato dagli odori che sentiva. L'uomo che lo accompagnava si era limitato a consegnarlo ad una volontaria e non si era voltato uscendo. Io guardavo la scena senza rendermi conto di nulla, volevo solo che l'attraversamento di quel corridoio fosse per lui veloce e indolore il più possibile. Ma più pensavo a quello che stava succedendo e più mi sembrava che lui si bloccasse. Non mi sembrava che vi fosse via di uscita: per lui era già chiaro che quel posto non ne avesse. Senza pensarci, feci qualcosa che mi uscì di getto e che sembrava non avesse alcun senso: andai verso di lui e mi misi a terra, nella sua stessa posizione, iniziandolo a chiamare e a sorridergli. Ogni volta che accennava a fare qualche centimetro, io guadagnavo indietro spazio e tornavo a chiamarlo, affondando nel fango del viale che portava ai corridoi. Lui proseguiva acquattato a terra di poco e io ripetevo la scena, ogni volta conquistando con un centimetro in più e piano piano mettendosi anche in posizione più eretta.
Oggi ripenso a quella scena e credo che il mio sorriso aumentasse per lui l'emozione di aver fatto un miracolo a cui gli si rispondeva con gratitudine. Quella sera lo lasciammo tranquillo nello stanzone delle coperte ma mi ero ripromessa di saltare ogni impegno l'indomani per tornare a vederlo. E fu così che io e quel cane arrivammo giorno dopo giorno a scambiarci tanto attraverso dei piccoli compromessi e concessioni da parte sua. E lui fu il mio apripista per altri cani. A lui devo la forza e l'emozione che mi hanno portato ad essere chi sono oggi. Nel lavoro ma nella vita in generale. E a lui, ancora oggi, devo un enorme grazie. Grazie grande cane nero: il primo amore, non si scorda mai!