Un team di ricercatori ha avuto al fortuna di ritrovare un dente di megalodonte – il famoso squalo gigante che visse fino a qualche milione di anni fa – a circa 3.000 metri di profondità sotto la superficie dell'oceano Pacifico, durante una spedizione che coinvolgeva anche l'attività di diversi ROV, dei piccoli sommergibili telecomandati. Questo dente è in perfette condizioni ed è incredibile pensare che ha affrontato la pressione esercitata dalla colonna d'acqua per oltre 3,5 milioni di anni, da quando cioè l'animale lo perse, probabilmente durante la caccia o uno scontro.
Gli squali sono famosi per avere una costante riciclo e ricomparsa di nuovi denti, ma questo ritrovamento è davvero straordinario considerando soprattutto la particolare situazione in cui si sono trovati gli scienziati. Il dente di megalodonte infatti era incastonato sul fondale oceanico e svettava su tutti i sedimenti e le altre rocce. Gli autori della scoperta hanno così dovuto decidere in fretta se e come raccogliere il reperto, prima di avere la totale sicurezza che si trattasse di un dente di squalo. La loro storia è stata pubblicata sulla rivista Historical Biology: An International Journal of Paleobiology.
Il ritrovamento è avvenuto a largo della base Johnston Atoll e il dente, per quanto oggi facilmente riconoscibile, era difficile da individuare in mezzo agli altri speroni rocciosi. Grazie alla presenza all'interno del team di alcuni ricercatori appassionati di squali, tra cui Danielle Cares, oceanografa dell'Università di Rhode Island, questi hanno notato velocemente la "strana pietra" che sembrava sporgere direttamente dalla sabbia e contattato immediatamente un paleontologo, Jürgen Pollerspöck del Museo statale di scienze naturali della Bavaria, per capire cosa fare. Gli scienziati si sono messi subito all'opera, sia per riportare in superficie il reperto che per ripulirlo dalle concrezioni che gli erano cresciute sopra.
Secondo i paleontologi, questo dente è contemporaneamente uno dei reperti più antichi di Megalodonte mai trovati nel Pacifico e uno dei reperti fossili estratti più in profondità della storia. Solo pochi altri fossili infatti sono stati ritrovati a profondità maggiore, con un record di 5570 m di profondità. «Non succede spesso che un fossile venga prelevato direttamente dal mare», hanno chiarito i ricercatori. L'ambiente inospitale e le forti pressioni esercitate sulle superfici rendono infatti quasi impossibile estrarre dei reperti da questo ambiente, per non parlare di come in verità il dente difficilmente è rimasto esposto per tutto il tempo alle correnti.
Attualmente infatti gli esperti ancora si domandano come mai un dente risalente ad un'epoca così antica sia riuscito a conservarsi così esposto sulla superficie del fondo marino. Una delle possibili soluzioni che hanno proposto è che il dente sia riemerso dal letto di roccia sottostante i detriti solo recentemente, di seguito a qualche evento sismico. Gran parte delle carcasse che raggiungono il fondo vengono infatti divorate nell'arco di pochi giorni e le ossa che ne rimangono vengono ricoperte dai sedimenti entro pochi mesi. È difficile quindi per gli scienziati spiegare questo fenomeno, senza prendere considerare dei possibili eventi sismici.
Un'altra teoria tuttavia suggerisce che il dente di megalodonte possa essersi trovato su una cresta rocciosa, dove le correnti oceaniche sono abbastanza forti da impedire l’accumulo di sedimenti. Questa teoria potrebbe essere confermata anche dal fatto che mentre i ROV lavoravano in acqua si spostavano andando anche ad affrontare la potenza delle correnti, molto forti in quel tratto di mare, mentre il bordo seghettato del reperto dimostra che non ha subito chissà quale sollecitazione meccanica post mortem. Esso infatti non sembra eroso, né porta i segni di un eventuale sollecitazione sismica.
«La scoperta di questo nostro reperto di megalodonte evidenzia l'importanza dell'utilizzo di tecnologie avanzate di immersione profonda, per esaminare le parti più grandi e meno esplorate del nostro oceano», ha concluso il team di ricercatori, sottolineando la necessità di continuare a finanziare i progetti scientifici legati all'oceanografia profonda.