I responsabili della Death Valley National Park, tra California e Nevada, non hanno dubbi: ritiengono che gli asini selvatici che si concentrano nelle pochissime zone umide di quest’area desertica distruggono la vegetazione nativa e inquinano le sorgenti e le pozze d’acqua con i loro escrementi, provocando un impatto devastante su flora e fauna del parco.
La cosa che non sanno, invece, è però risolvere questo problema. Infatti, il parco vorrebbe passare all'eradicazione totale degli animali. Mentre un gruppo di scienziati chiede di riflettere su un'altra risposta possibile dimostrata dai loro studi.
Ma andiamo per ordine. I burros, come li chiamano da quelle parti, sono i discendenti inselvatichiti degli asini domestici arrivati nelle Americhe nel 1500. A portarli sono stati i colonizzatori spagnoli e sono stati compagni indispensabili dei cercatori d’oro. Passata però la febbre dell’oro, gran parte degli asini è stata liberata o è fuggita.
E così gli animali attuali non solo si sono adattati anche in un ambiente estremo come quello desertico ma sono aumentati del 20 per cento all’anno, vista l’assenza di predatori. Cosa che ha convinto il National Park Service, che finora li aveva solo catturati per contenerne il numero, a pensare, invece, alla completa eliminazione.
Su questa prima soluzione estrema, però, come dicevamo, non è d’accordo un team di ricercatori guidato da Erick Lundgren, ecologo dell'Università di Aarhus (Danimarca). Il quale, avendo invece prove fotografiche della presenza di predatori, sconsiglia fortemente l’eliminazione degli asini.
Il gruppo di scienziati ha catturato, infatti, la prima prova fotografica della predazione di un asino selvatico da parte di un puma. Non che mancassero gli indizi su questa possibilità, ma fino a quel momento non c'era stata alcuna prova di predazione attiva.
Lo studio è stato pubblicato recentemente in un articolo sul Journal of Animal Ecology insieme all’analisi del comportamento dei burros in 14 zone umide presenti nel deserto, alcune delle quali frequentate anche dai puma.
I risultati hanno mostrato che i burros trascorrevano molto tempo nelle aree in cui i puma erano assenti, mentre in quelle dove erano presenti, il tempo medio si riduceva a soli quaranta minuti e quasi mai durante la notte, ore preferite dai felini per la caccia.
Inoltre, una cosa ancora più interessante rilevata dai ricercatori è stata che, i siti meno frequentati dagli asini, presentavano una vegetazione molto più rigogliosa. In parole povere, secondo gli studiosi, la presenza del puma nella Death Valley riduce l’utilizzo delle zone umide da parte dei burros e aiuta a preservare un paesaggio più intatto e un ecosistema più sano.
La ricerca parla della cosiddetta “cascata trofica”, ovvero, un fenomeno in cui un singolo tipo di predatore che caccia un determinato animale da preda, può innescare una serie di effetti secondari in grado di modificare l’intero ecosistema.
Secondo Lundgren, quindi, due sono i fatti che dovrebbero far ripensare al Parco la soluzione estrema di eradicazione degli asini.
Il primo, che la presenza dei puma impedisce loro di distruggere le zone umide. Il secondo, che l’alterazione della cascata trofica potrebbe avere conseguenze tragiche, come l’aumento della predazione del puma nei confronti della fauna nativa, come il bighorn, la pecora delle Montagne rocciose (Ovis canadensis) e la tartaruga (Gopherus agassizii).
Al momento però, il Parco, sembra più ascoltare l’opinione di Mark Boyce, ecologo dell'Università dell’Alberta in Canada, che invece sottolinea che i burros sono pur sempre una specie aliena invasiva e che la conclusione a cui è arrivato Lundgren e il suo team è un grave errore.