Il cappio era già al collo, altre mani lo tenevano fermo. Tyron si è dimenato, ha guaito ma loro hanno continuato: tre minorenni hanno cercato di impiccare un Pitbull a un palo della stazione ferroviaria di Gela e il giorno dopo il cucciolo è morto.
Le urla strazianti del cane sono arrivate a una ragazza al balcone che è scesa in strada mettendo in fuga i criminali, allentando il cappio a Thyron e chiamando i soccorsi. Mentre le forze dell'ordine davano la caccia ai colpevoli, il cane veniva affidato ai volontari di Vita randagia onlus.
Ricoverato in una clinica a Caltagirone, i medici gli hanno diagnosticato anche una grave forma di parvovirosi. E così, consumato dalla malattia e dalla lotta per sopravvivere alla cattiveria dei tre ragazzi, Thyron non ce l'ha fatta. Proprio lo stato di salute del cucciolo, secondo i volontari, potrebbe essere stata la causa del reato: per liberarsene in quanto debole e malato.
«Questi soggetti dovrebbero essere tenuti sotto controllo – dicono da Vita randagia onlus – le famiglie dovrebbero capire che è il caso di far aiutare i propri figli perchè un bambino che fa male a un animale potrebbe farlo anche a un suo coetaneo, a un suo amico o a un parente e soprattutto devono esserci pene molto più severe, perchè questi crimini non vengono mai puniti e tutti pensano di poterli commettere senza andare incontro a nessuna pena».
La tentata impiccagione ha chiuso la vita del cucciolo e ha segnato la vita degli umani di un tratto d'odio, disprezzo e indifferenza per la vita che nulla di buono, maturo, godibile e significativo fanno presagire per la storia dei tre minorenni che sono stati identificati dalla forze dell'ordine.
«È l'indicatore di un circuito di incomunicabilità e aggressività generazionale che si autoalimenta circolarmente senza nessuna prospettiva evolutiva», spiega la psicoterapeuta Stefania Magnoni del Consultorio Cstcs di Genova. «La nostra società non sta sostenendo la cultura della responsabilità personale; se il disprezzo, la cattiveria, la violenza non trovano un argine nella mente che riesca a contenerle, non c’è solo colpa individuale, c’è colpa collettiva».
«Questa prospettiva non nega affatto il peso individuale della violenza né tantomeno la giustifica – continua la pscicoterapeuta – Allarga la prospettiva e dice che ciascuno di noi ha una responsabilità (diretta o indiretta) se la società di cui facciamo parte non è stata capace di dare ai suoi componenti la possibilità di costruire una mente sufficientemente matura da non aver bisogno di mettere in atto con indifferenza e disprezzo, comportamenti inutilmente violenti verso altri esseri viventi».
«Una società che coltivi la cultura del rispetto e della responsabilità favorirebbe in modo sostanzioso l’emergere di comportamenti rispettosi anche perché dall’interno del processo di crescita ci sarebbe stato spazio per sentirsi rispettati e riconosciuti».