L'empatia, ossia la capacità di comprendere e condividere le emozioni dell'altro, è uno dei principali fattori che guida il comportamento d'aiuto. Non aiutiamo però tutti allo stesso modo: siamo infatti più propensi ad essere altruisti con i membri del nostro gruppo sociale, come i nostri familiari o amici, o allargando i confini, il nostro gruppo etnico o religioso d'appartenenza. Vi è mai capitato, durante la lettura di un giornale, di essere più colpiti dalla notizia di un italiano disperso in un posto remoto del mondo, rispetto a un tedesco o un americano? Verso chi sareste più propensi a tendere una mano? Questo avviene perché il nostro senso d'appartenenza e d'identificazione sociale è più forte per il nostro ingroup (gruppo sociale) che ci rappresenta e ci assomiglia, piuttosto che per il nostro outgroup. Questo pregiudizio sociale non è presente però solo nella nostra specie ma lo condividiamo anche con altri animali, tra cui i roditori. Uno studio pubblicato recentemente su eLife dimostra che i ratti (Rattus norvegicus) aiutano preferenzialmente gli individui del loro ingroup e non quelli del proprio outgroup, individuando le zone del cervello che li spingono a dare la priorità al loro "gruppo sociale".
Lo studio: il comportamento d'aiuto nei ratti
I ricercatori hanno eseguito un test di comportamento d'aiuto su 83 ratti di due ceppi differenti: albino (Sprague-Dawley Rat) e dal mantello nero e bianco (Long–Evans Rat). L'esperimento consisteva nell'inserire due ratti in un contenitore: uno era libero di muoversi, l'altro invece era intrappolato in un dispositivo di contenimento, costituito da un tubo trasparente. I ricercatori hanno testato i ratti maschi Sprague-Dawley per vedere se aiutavano a far uscire il compagno intrappolato preferenzialmente dello stesso ceppo (ingroup) o uno sconosciuto Long-Evans dal mantello nero (outgroup). I ratti testati con un membro dell'outgroup intrappolato raramente lo liberavano, mentre lo facevano più frequentemente per un membro del proprio ingroup. I ricercatori hanno inoltre osservato l'attività neurale di alcune zone del cervello: le cortecce sensoriale, orbitofrontale, cingolata anteriore e insulare, dimostrando che queste regioni sono coinvolte nell'elaborazione della sofferenza dell'altro, così come avviene in modo simile per la nostra specie. Percepire lo stato emotivo negativo dell'altro però non vuol dire per forza agire per aiutarlo: nonostante percepissero il disagio, la scelta di aiutare era influenzata dall'appartenenza al proprio gruppo sociale. Il circuito di ricompensa neurale del ratto aiutante infatti, che spinge l'individuo a soccorrere l'altro, si attivava solo se il ratto intrappolato era dello stesso ceppo e quindi membro del suo ingroup.
Test del comportamento d'aiuto ©Inbal Ben-Ami Bartal et al, Neural correlates of ingroup bias for prosociality in rats, eLife (2021)
Perché aiutiamo alcuni e siamo indifferenti per la sofferenza di altri?
Questo studio suggerisce che, data l'attivazione di zone simili nei ratti e nell'uomo coinvolti nell'aiuto empatico, prendersi cura dell'altro è un meccanismo neurobiologico condiviso tra i mammiferi. L'empatia d'altronde, si pensa si sia evoluta nel contesto delle cure parentali e che si sia poi integrata nel comportamento delle specie sociali. I ratti testati hanno inoltre dimostrato selettività sociale nel comportamento d'aiuto e gli umani potrebbero condividere con loro lo stesso pregiudizio neurale. Capire quali sono i meccanismi alla base di questo fenomeno è importante per capire come eliminare, e anche perché esistono, i pregiudizi sociali che influenzano la spinta a aiutare gli altri nel momento del bisogno. In poche parole, può aiutarci a comprendere perché aiutiamo alcuni, mentre siamo indifferenti per la sofferenza di altri. Un altro punto importante è che l'empatia da sola non sembra bastare per indurre il comportamento d'aiuto: al contrario è necessario anche un sentimento di appartenenza e d'identificazione con il gruppo.