La vita delle specie autoctone nelle isole Kerguelen, un arcipelago francese di isole sub-antartiche nell'Oceano Indiano meridionale, è a rischio. E il motivo secondo le autorità locali è il numero troppo alto di gatti rinselvatichiti presenti.
La popolazione di felini ha raggiunto diverse migliaia di esemplari e, anche se è difficile sapere con precisione quanti siano, le stime dei ricercatori dell’Institut polaire française (Ipev) parlano di 7/8mila esemplari.
L’effetto dei gatti rinselvatichiti sulla biodiversità dell’arcipelago è un fenomeno che si ripete ciclicamente, ma che le autorità risolvono sempre nello stesso modo: uccidendoli. Era già successo nel 2015 quando, dopo la dichiarazione del ministro dell'Ambiente che parlò dei gatti «flagello ecologico» e «tsunami di violenza e morte per le specie autoctone», nell'isola-continente si decise di ucciderne 2 milioni.
Un’assurdità per le associazioni per la protezione degli animali, indignate per questo "genocidio animale”, visto che si potrebbe utilizzare la sterilizzazione di massa, facendo diminuire le popolazioni di felini così. Una pratica ritenuta dalle autorità però dai tempi troppo lunghi, alla quale viene preferita l'eliminazione tout court.
Per fermare i predatori esistono, infatti, due strategie contrapposte: il cosiddetto metodo "Trap-Neuter-Return" (TNR) che consiste nella cattura, nella sterilizzazione e nel rilascio e l'altra modalità che avviene attraverso lo sterminio mediante veleno, armi da fuoco o eutanasia dopo la cattura.
Ma i gatti liberi e rinselvatichiti sono davvero la causa dell’erosione della biodiversità? Secondo alcuni studi, sì. Uno di questi, condotto dallo Smithsonian Conservation Biology Institute di Washington nel 2012, indicava i gatti randagi come «la principale causa di mortalità della fauna selvatica negli Stati Uniti», sostenendo che uccidono tra 1,4 e 3,7 miliardi di uccelli e tra 6,9 e 20,7 miliardi di piccoli mammiferi all'anno.
Una ricerca più recente, pubblicata nel marzo 2021 sulla rivista svizzera Springer Nature da un team di ricercatori guidati da Christophe Barbraud, non si discostava di molto. Gli scienziati hanno dimostrato infatti in questi studi che esiste un legame tra la predazione felina e la riduzione delle possibilità di riproduzione proprio tra gli albatros delle Kerguelen, uccelli particolarmente in pericolo su queste isole.
Attraverso delle fototrappole, posizionate nella penisola di Courbet a est di Grande-Terre, gli studiosi hanno registrato un successo riproduttivo decisamente inferiore, il 12 per cento. Lì sono stati osservati gli attacchi ai pulcini rispetto ad altre aree senza aggressioni (86 per cento). Inoltre, i ricercatori hanno documentato il successo di caccia dei gatti che raggiunge il 76 per cento, un tasso superiore anche a quello del servàlo o gattopardo africano, considerato il killer più efficiente dell'intera famiglia felina.
L'uccisione di massa viene dunque preferita nonostante si sappia che il problema riguarda anche la presenza enorme di reti da pesca e la contaminazione da agenti inquinanti ma come per le sterilizzazioni il centro di ricerca ritiene che «gli sforzi di conservazione dovrebbero concentrarsi sull'eradicazione dei felini» e sempre per questione di tempi.
Nelle Terre Australi e Antartiche francesi, in realtà, la caccia ai gatti è in corso da molto tempo rallentata soltanto dal fatto che gli agenti della riserva naturale che devono gestire il problema non hanno abbastanza fondi per affrontare il problema.