Ogni quadrato di mare delimitato da un recinto galleggiante che si vede nella foto in alto contiene almeno un delfino in cattività. A volte, spesso, più di uno. Per un totale di 269 delfini imprigionati, catturati nella Baja di Taiji, in Giappone, e pronti per essere rivenduti ai delfinari di tutto il mondo dove finiranno per esibirsi, dopo essere stati duramente addestrati, per tutta la vita.
È lo sconvolgente report che arriva, ancora una volta, dalla collaborazione tra il Dolphin Project di Ric O’Barry e la Life Investigation Agency (LIA), guidata dal direttore della campagna Ren Yabuki. Una collaborazione strettissima a partire dalla stagione di caccia ai delfini 2016/17 quando Ren arrivò a Taiji per capire come funzionava l’industria della cattività in Giappone. Quest’anno, da questa collaborazione, arriva un resoconto dettagliatissimo sulla attuale situazione nella cittadina del Giappone meridionale diventata famosa in tutto il mondo nel 2010 quando il documentario vincitore dell’Oscar The Cove la raccontò come teatro principale della sanguinosa caccia ai delfini.
The Cove, il documentario statunitense del 2009 diretto da Louie Psihoyos, raccontò infatti per la prima volta la caccia al delfino che ogni anno, da settembre ad aprile, si tiene nel parco nazionale giapponese di Taiji. E fu fondamentale per la presa di coscienza di moltissimi attivisti, tra cui proprio Ren Yabuki. Nel 2022, secondo quanto raccolto con una presenza giornaliera sul posto dagli oltre 46 attivisti giapponesi della LIA, i delfini confinati a Moriura Bay sono diventati 269. Praticamente una delle più grandi, se non la più grande, prigione a cielo aperto di delfini in cattività di tutto il mondo. Si tratta di nove specie di delfini: 180 tursiopi, 35 delfini di Risso, 11 balene pilota a pinne corte, 8 delfini striati, 19 delfini bianchi del Pacifico, 3 balene dalla testa a melone, 3 delfini dai denti ruvidi, 9 delfini maculati e 1 falsa orca.
Battute di caccia in cui i delfini muoiono o perdono la libertà
Si fa una certa difficoltà, guardando le immagini che arrivano da Giappone, a capire che ogni recinto galleggiante contiene almeno un animale prigioniero. Ma la realtà dell’industria della cattività è proprio questa: i delfini vengono catturati con battute di caccia molto cruente, molti di loro (forse fortunatamente) muoiono, gli altri perdono per sempre la libertà, la possibilità di vivere secondo la loro natura, di nuotare liberi per centinaia di chilometri ogni giorno, di cacciare pesce per nutrirsi, di comunicare tra i tanti esemplari che costituiscono un pod, cioè un gruppo che vive e nuota insieme per tutta la vita. La prigionia in questi recinti, in attesa di essere comprati da un delfinario, rappresenta la tappa intermedia della futura vita in cattività a cui sono condannati.
Migliaia di delfini imprigionati ogni anno
«Sebbene Taiji sia il più grande centro mondiale per il commercio di delfini vivi, non c'è dubbio che l'industria continuerà a diminuire poiché la cattura, la vendita e l'allevamento di animali selvatici diventano sempre più proibiti in tutto il mondo – spiega Ren Yabuki. – La percentuale di giorni in cui i cacciatori di delfini non sono riusciti a catturare alcun delfino è stata del 64% nella stagione 2020/21, ma nella stagione successiva, quella attuale, è stata del 69%, con un aumento del 4%. Dolphin Project raccoglie il numero di delfini catturati ogni anno e il numero sta diminuendo di anno in anno, ma è necessario abbandonare queste pratiche crudeli il prima possibile».
A Moriura un parco acquatico con i delfini
Secondo quanto riportato, la pandemia da Covid-19 avrebbe aumentato il numero di delfini rimasti prigionieri nei recinti marini di Taiji a causa della fortissima diminuzione delle vendite. La chiusura al pubblico delle strutture di intrattenimento, come acquari, delfinari e piscine, ha di fatto diminuito la richiesta di nuovi delfini con cui alimentare questo genere di industria di intrattenimento. «Qualche anno fa, Taiji ha deciso di creare un parco a tema acquatico nella baia di Moriura, dove i visitatori possono fare paddle board, canoa, nuotare con i delfini in cattività e dar loro da mangiare – spiega l’ex addestratore diventato poi il fondatore di Dolphin Project Ric O’Barry – Uno dei loro obiettivi è quello di allevare e incrociare le specie, creando mammiferi insoliti e rari come i delfini albini o leucistici, o specie ibride, per ottenere il massimo profitto».
La selezione dei delfini più adatti all'addestramento, l'uccisione degli altri
«Gli addestratori di delfini si precipitano alla Baia non appena ricevono la notizia che i cacciatori hanno catturato delfini che appartengono a una specie che l'industria del delfinario desidera – spiega Helen O’Barry – lavorando a stretto contatto con i cacciatori, iniziano a selezionare quelli che si adattano al sesso, alla taglia, all'età e all'aspetto desiderati. Sono in gioco molti soldi. Un delfino vivo venduto all'industria dei delfinari può portare a 153.000 dollari USA o più». Un compito, quello degli addestratori che scelgono i delfini da comprare, che condanna alla vita o alla morte gli esemplari in acqua. «Ciò che accade nella Baia rappresenta la crudeltà nella sua forma più concentrata – commenta ancora l’attivista – Sembra che non ci siano limiti alla sofferenza che cacciatori e addestratori infliggono alle loro vittime. Quando gli addestratori allontanano un cucciolo dalla madre, entrambi i delfini gridano angosciati e tormentati. Gli istruttori sono impassibili. Quando gli addestratori portano via il cucciolo per gettarlo in una delle gabbie marine nella baia di Moriura, la madre continua a gridare che il suo cucciolo venga restituito. I formatori lo ignorano. Non c'è empatia e nemmeno simpatia».