Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Frontiers in Veterinary Science ha appena reso noto che i cani soggetti da sindrome da disfunzione cognitiva canina (CCDS), una malattia simile all'Alzheimer che tende a rendere la memoria dei nostri cari amici a quattro zampe più labile, sperimentano come gli esseri umani delle fastidiose interruzioni nei ritmi del sonno e delle alterazioni delle onde cerebrali delta quando si entra negli strati più profondi del riposo.
Il nuovo dato è importante perché permette da una parte di studiare la progressione della demenza nei cani e potrebbe poi potenzialmente aprire la strada a ulteriori studi sulle somiglianze delle malattie che colpiscono il cervello delle due specie.
L'alterazione della qualità del sonno nei cani secondo gli studiosi deriva dai danni causati ad alcune aree del cervello che solitamente regolano l'alternanza del sonno e della veglia negli individui sani. Ed in effetti le persone affette da Alzheimer spesso soffrono di sintomi simili come la sonnolenza diurna, l'agitazione o la confusione intorno al tramonto e la frequente insonnia notturna che li porta a restare svegli per gran parte della notte.
Nello specifico, i soggetti colpiti subiscono un accorciamento del loro riposo, sia nel sonno REM che non REM, chiarisce la dottoressa Natasha Olby, professoressa di neurologia e neurochirurgia veterinaria presso la North Carolina State University. La riduzione più significativa avviene durante una fase del sonno in cui si verifica il consolidamento dei ricordi, nota meglio ai neurologi come "sonno ad onde lente (SWS)", dove le onde cerebrali delta (da 0,1 a 3,5 Hz) la fanno da maggiore. «Il nostro studio è il primo a valutare l'associazione nei cani anziani tra deterioramento cognitivo e peggioramento del sonno utilizzando la polisonnografia, la stessa tecnica utilizzata negli studi sul sonno nelle persone », ha affermato con orgoglio il team di scienziati.
Come sono riusciti però gli scienziati a comprendere che cani e esseri umani soffrivano di patologie simili? E' stato chiesto ai pet mate di 28 soggetti anziani di compilare un questionario sui comportamenti dei loro fidati compagni, in modo da valutare la gravità dei sintomi. I cani avevano un'età compresa tra i 10,4 e i 16,2 anni di età ed appartenevano a razze diverse, sia maschi che femmine. Le domande presenti nel questionario chiedevano soprattutto di valutare il livello di disorientamento, dell'interazioni sociali e della sporcizia domestica che affliggevano i cani, oltre che segnalare comorbilità ortopediche, neurologiche, biochimiche e fisiologiche degli animali a seguito di alcune analisi gratuite effettuate dai veterinari.
Sulla base dei risultati, il 28,5% dei cani anziani è stato classificato come "normale", mentre i restanti partecipanti sono stati classificati con vari gradi di CCDS: il 28,5% con CCDS lieve, il 14,3% con CCDS moderato e il 28,5% con CCDS grave.
Il team di ricerca ha allora condotto una serie di test cognitivi sui cani con demenza per valutare la loro attenzione, la memoria di lavoro e il controllo esecutivo. Uno di questi test richiedeva al cane di recuperare un cibo particolarmente attraente, come un dolcetto o uno snack, da un cilindro orizzontale trasparente che necessitava di essere utilizzato da entrambe le estremità. Solo allora, al termine di questo test, si compiva la polisonnografia agli animali che riuscivano a ottenere il premio.
Gli studi polisonnografici sono stati condotti in una stanza che simulava un classico ambiente clinico del sonno, dove ai cani venivano posti degli elettrodi sul capo e nel petto, mentre effettuavano spontaneamente un pisolino pomeridiano. Gli elettrodi servivano principalmente per misurare le loro onde cerebrali, l'attività elettrica dei muscoli e del cuore e i movimenti degli occhi.
«Le misurazioni duravano fino a due ore ma venivano interrotte se i cani diventavano ansiosi, tentavano di lasciare la stanza o rimuovevano gli elettrodi», hanno chiarito gli studiosi. Dei cani studiati si segnala che il 93% è entrato nella sonnolenza, l'86% è entrato nel sonno non REM (NREM) e il 54% è entrato nel sonno REM. Dati che permettono agli scienziati di dire che l'esame polisonnografico ha ottenuto risultati sufficienti per la ricerca.
E' stato così dimostrato che i cani soggetti maggiormente alla demenza e quelli che si sono rivelati incapaci nell'ottenere il premio (se non dopo svariati tentativi) impiegavano più tempo ad addormentarsi e trascorrevano meno tempo a dormire. Inoltre, i cani con punteggi di memoria più bassi hanno mostrato di dormire meno profondamente durante il sonno REM, disponendo un minor numero di onde delta nei loro elettroencefalogrammi in questa fase del riposo. Fenomeno che riduce drasticamente anche la qualità della memoria di questi animali.
«Nelle persone, le onde cerebrali lente caratteristiche del sonno REM sono legate all'attività del cosiddetto sistema di trasporto glinfatico, che rimuove i prodotti di scarto delle proteine dal liquido cerebrospinale – ha spiegato la dottoressa Olby – La riduzione di tali oscillazioni nelle persone con Alzheimer e la conseguente ridotta rimozione di queste proteine, che possono fungere da tossine, spesso è stata implicata dai neurologi allo scarso consolidamento della memoria durante il sonno profondo». La riduzione del sonno REM porterebbe quindi ad un «avvelenamento progressivo del cervello» che causa dei danni non solo ai sistemi di ricaptazione di queste proteine ma anche alle aree che regole le fasi del sonno. Un serpente che si morde la cosa, in pratica.
È interessante notare che seppur i risultati dello studio mostrano somiglianze tra CCDS dei cani e Alzheimer umano, gli scienziati avvertono che non è ancora noto se i cambiamenti legati alla memoria degli animali si verificano solo durante il sonno notturno o anche durante i sonnellini pomeridiani. «Il nostro prossimo passo sarà seguire i cani nel tempo durante i loro ultimi anni per determinare se ci sono marcatori precoci nei loro schemi sonno-veglia o nell'attività elettrica del loro cervello durante il sonno notturno, marcatori che potrebbero prevedere il futuro sviluppo di disfunzione cognitiva anche in cani più giovani», ha concluso Olby.