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23 Novembre 2023
13:21

Siamo diventati bipedi grazie alla forma dei nostri piedi, la ricercatrice: «Un miracolo dell’evoluzione»

I piedi umani sono un concentrato di vecchie e nuove innovazioni, capaci di renderci bipedi e in grado di effettuare una corsa.

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Un nuovo studio, pubblicato su Communications Biology dai ricercatori dell‘Università di Bologna, dell'Istituto Ortopedico Rizzoli e dell‘Università di Pisa, ha rivalutato come sia avvenuta l'evoluzione del bipedismo nella nostra specie, mettendo in risalto la struttura anatomica che più di tutte ha contribuito nel renderci indipendenti dal suolo: l'arco longitudinale dei nostri piedi.

Come afferma Rita Sorrentino, ricercatrice e prima autrice dello studio, i nostri piedi sono «un miracolo dell'evoluzione», in quanto non solo ci permettono di compiere le varie azioni (correre, camminare, saltare, calciare e strisciare) che abitualmente compiamo ogni giorno ma anche perché sono il perfetto esempio di come queste "strutture" del nostro corpo si sono adattate per il nostro futuro.

L'arco longitudinale del piede è infatti considerato dai paleontologi e dagli antropologi come una delle prime conquiste della nostra specie. Se mettiamo a confronto i piedi dei nostri cugini primati con i nostri, osserveremmo che il nostro arco è molto più lungo e affusolato, oltre che più resistente dal punto di vista anatomico. Gli altri primati, infatti, non hanno bisogno di un piede perfettamente adattato alla camminata ed è per questo che continuano a disporre di un alluce opponibile, assente nella nostra specie.

Disporre di un arco longitudinale così lungo si dimostra invece molto efficiente per ammortizzatore gli urti durante la camminata, spiega la dottoressa Sorrentino, oltre ad essere utile anche come leva durante le fasi di slancio e contatto con il terreno.

A risultare però davvero fondamentale per la nostra specie è stata la capacità delle ossa del nostro piede di reagire agli stimoli e alle esigenze che abbiamo dovuto affrontare, esplorando i diversi ambienti del nostro pianeta. I risultati presentati all'interno dello studio chiariscono che lo sviluppo dell’arco plantare longitudinale è stato fortemente influenzato da alcuni fattori esterni, ambientali e culturali come la tipologia di calzature impiegate da alcune popolazioni, la tipologia di suolo che abbiamo dovuto attraversare, il clima, gli stili di vita come le strategie di locomozione che abbiamo dovuto sviluppare per viaggiare velocemente all'interno di un territorio.

Gli archi plantari delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, per esempio, maggiormente adattati a suoli duri e a muoversi in continuazione presentano ancora oggi piedi più piatti e ossa più flessibili rispetto alle società sedentarie che usano calzature o quelle che passano gran parte del tempo a cavallo, seguendo le mandrie, come ad esempio in Mongolia.

Gran parte della ricerca, che ha avuto tra le sue fila anche Damiano Marchi, professore dell'Università di Pisa ed uno degli scopritori di Homo naledi, si è anche concentrata sul confronto tra la nostra specie e i nostri antenati, tra cui gli ominidi che hanno compiuto i primi timidi passi verso il bipedismo. Secondo i ricercatori, infatti, i resti di chi ci hanno preceduto, come Homo floresiensis, Homo ergaster, Australopithecus afarensis e Homo naledi, presentano delle strutture ossee che dimostrano come la loro vita fosse perfettamente adattata ad uno stile ibrido, che gli consentiva di vivere sia in mezzo agli alberi che all'altezza del suolo.

Questo però non ci deve far pensare che tutti i nostri antenati fossero "ibridi" e che il vero e proprio bipedismo comparve solo quando nacquero i primi veri uomini moderni. Questa ricostruzione sarebbe infatti piuttosto riduttiva, spiegano i ricercatori. Per esempio, i fossili di Homo habilis, uno degli ominidi più importanti della storia della paleoantropologia che aveva i piedi con una configurazione simile a quella moderna, indicando che l'arco plantare longitudinale sia comparso più volte all'interno del ramo evolutivo degli ominidi.

Anche i Neanderthal e l‘Homo heidelbergensis sembravano disporre delle nostre stesse strutture, sebbene sia ancora irrisolta la questione relativa alla comparsa dei piedi piatti nella nostra specie. Secondo infatti i risultati forniti da questo studio, la loro presenza così importante all'interno della nostra popolazione potrebbe dimostrare come essi siano in realtà una variante normale della nostra morfologia, frutto di un antichissimo adattamento nei confronti di suoli duri che non siamo più abituati ad attraversare, soprattutto a piedi nudi.

L'osso che più di tutti ha consentito ai nostri piedi di divenire incredibilmente più efficienti nel correre e camminare è stato lo scafoide tarsale, noto anche come osso navicolare. Esso infatti ha permesso ai quattro lati del piede di trovare un punto saldo di appoggio, resistente agli urti e in grado di articolarsi con i legamenti provenienti dalla caviglia e con le lunghe falangi delle dita. Ed ha infine anche concesso alla nostra specie di liberarci definitivamente dalla condizione ibrida e dall'alluce opponibile, divenuti dei gravi svantaggi per i nostri nuovi stili di vita.

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Posizione anatomica dello scafoide (arancione) nella colonna mediale del piede (in alto). Lungo il fondo, i rendering di un scafoide archeologico di H. sapiens (dalla collezione di scheletri umani identificati da Frassetto – Università di Bologna) sono illustrati nelle viste prossimale (in basso a sinistra) e distale (in basso a destra). Sono mostrate le configurazioni del posizionamento dei punti di riferimento e dei semi–punti di riferimento: cinque punti di riferimento fissi (neri), 46 semi–punti di riferimento curvi (azzurro) che descrivono i corrispondenti contorni della superficie articolare e 34 semi–punti di riferimento di superficie (arancione) sulle superfici articolari e sulla tuberosità navicolare. Immagine proveniente dallo studio.
Sono laureato in Scienze Naturali e in Biologia e Biodiversità Ambientale, con due tesi su argomenti ornitologici. Sono un grande appassionato di escursionismo e di scienze e per questo ho deciso di frequentare un master in comunicazione scientifica. La scrittura è la mia più grande passione.
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