Quel pomeriggio era inevitabile che in città ci si imbattesse in un gran numero di persone e cani. Ogni strada sotto Natale pullulava di gente, famigliole e cani di ogni razza e taglia a volte letteralmente trascinati nel tran tran della caccia agli ultimi regali. I negozi traboccavano di gente, i marciapiedi erano affollati di persone cariche di buste e bustarelle che rendevano difficoltoso il passaggio. L’atmosfera del Natale non mi é mai piaciuta particolarmente ma quell’anno tutto era ancor più difficile: forse perché il freddo e le luci della città addobbata a festa davano ancora di più quella sensazione di tutta apparenza e poca sostanza e io, nonostante i sorrisi della gente, non mi sentivo affatto festante.
I miei pensieri affollavano la testa e la televisione aveva preannunciato l’arrivo di un gran freddo: mentre per tanti l’ipotesi che avrebbe nevicato poteva rendere l’atmosfera natalizia ancora più’ bella, per me significava solo sapere di arrivare in canile con le ciotole dell’acqua ghiacciata e sperare che la scorta di coperte fatte bastasse per gli ospiti del rifugio. Non mi è mai piaciuto il Natale e neanche il freddo.
Un incontro fortuito che diventa un’occasione di riscatto: la storia di Anita
Nel camminare veloce verso il mio appuntamento, avevo notato fuori da un grande negozio un signore con la barba e, acciambellato a fianco a lui, un cane avvolto in una coperta rossa. Avevo fretta, sempre questa maledetta fretta per causa del lavoro ma mi ero ripromessa di buttarci un occhio senza correre al mio ritorno. E così feci. Dopo un paio di ore abbondanti, ripassando, il signore con la barba era ancora lì, col suo bicchiere pieno a metà di monetine e nonostante il freddo pungente. Non si era mosso neanche il gran cane nero sotto la coperta rossa. Mi avvicinai sorridendo, intenta a cercare qualche spicciolo e mi chinai verso di loro chiedendo del cane. Con mia grande sorpresa, lui aprì delicatamente un lato del cappotto e mi presentò Anita che sonnecchiava sotto la coperta rossa, e Garibaldi, un gattino grigio con tanto di collarino che ronfava anche lui ma sotto il cappotto. Con quel gesto mi aveva conquistata subito e non certo per i nomi curiosi ma perché davanti ai miei occhi c’era semplicemente un’intera famiglia. Chiesi se potevo accomodarmi accanto a loro e se aveva voglia di raccontarmi come mai i suoi amici avessero quei nomi. Saverio sorrise, così si chiamava, e fece un gesto con la mano indicandomi lo scalino del negozio.
Saverio, Anita e Garibaldi: una vita insieme
Saverio era un uomo mite, si capiva da come usava le mani mentre parlava, dal tocco gentile con cui si lisciava la barba e dal fatto che spesso poggiava semplicemente il palmo della mano sulla coperta rossa e verso la tasca del cappotto, quasi a sincerarsi che i suoi amici fossero lì con lui, sereni a riposare. Mi raccontò che veniva dal nord e che la fabbrica in cui aveva lavorato a Marghera aveva chiuso mandando a casa tanta gente. A lui piaceva lavorare ma dopo quella chiusura tutto il suo mondo era precipitato. Aveva iniziato a chiedersi che senso avesse lavorare tutto il giorno per tornare a casa la sera, da solo, lui che una famiglia non se l’era mai sentita di farsela. E così, complice quel licenziamento, aveva pensato che casa potesse essere ovunque e che, forse, vivere di poco e girare non era certo un’idea malvagia.
Anita era la cagna di un ragazzo tedesco che aveva conosciuto a Milano ma che purtroppo non c’era più e lui senza neanche ragionarci troppo, aveva deciso di prenderla con sé. Ci teneva a farmi vedere tutte le scartoffie nella tasca dello zaino: voleva che vedessi coi miei occhi che Anita stava bene, era registrata in anagrafe e mi mostrò orgoglioso il libretto sanitario scandendo la frase «non le faccio mancare nulla» più e più volte. Era un uomo buono Saverio, si vedeva dal suo modo di sorridere semplice e vero: un sorriso di chi possiede poco ma non è sceso a patti con la vita, l’ha scelta.
Anche su Garibaldi era entusiasta di raccontarmi la sua storia: mi disse che era un micino che viveva nel parco dove era solito dormire a Roma e che lo aveva abituato sin da subito a stargli vicino e sulla spalla come se fosse il suo zaino, quando si camminava. Adesso aveva due anni e quando era più piccolo si era raffreddato ma una signora lo aveva aiutato per tutte le cure e glielo aveva fatto castrare. Erano insieme a girare per lo Stivale da tempo ormai e finora, come lui diceva, tutto era andato per il meglio.
Quanto siamo in grado di essere davvero empatici con le persone?
Mentre chiacchieravo con Saverio, mi resi conto che ogni tanto gli ripetevo che se avesse avuto bisogno potevo lasciargli il mio numero di telefono. Altra cosa che facevo era che ogni frase la concludevo con «se posso darti una manco per Anita e Garibaldi devi solo dirmelo». Lui sorrideva, forse perché chissà quanti gli avevano fatto quel tipo di offerte e chissà quanti di noi, per circostanza, nella fretta delle nostre vite, si erano soffermati alla fine più per Anita e Garibaldi che per Saverio. Tornando a casa, mi sentii una sciocca: cosa potevo offrire io a quell’uomo che aveva scelto chiaramente come vivere, girando il mondo? Era piuttosto lui che probabilmente poteva stare lì ore a raccontarmi le avventure della sua vita, storie che io neanche mi sognavo. Mi sono sempre rimasti impressi nella mente la serenità di Anita, che sonnecchiando aveva a malapena aperto mezza palpebra per scorgermi su quello scalino e Garibaldi che impastava, mezzo addormentato, la fodera del cappotto. Conserverò sempre il sorriso di Saverio, il suo fare gentile nel mio cuore e nella testa, pensando, e ogni tanto penso chissà dove saranno tutti e tre in questo momento.