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10 Luglio 2023
15:14

Raro pesce rosso con le “mani” in Tasmania: lotta contro il tempo per salvarlo

Questo piccolo pesce che "cammina" sul fondale rischia di scomparire anche per la sua eccessiva specializzazione e nonostante venga spesso preso in giro per la sua "espressione" scontrosa meriterebbe maggiore attenzione.

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Non tutte le specie possono essere considerate esteticamente "belle", ma questo non significa che debbano essere abbandonate al loro triste destino. È questo il cuore del dibattito che sta animando alcune città sud-occidentali dell'Australia, dove numerosi biologi della conservazione stanno cercando di salvare due piccole popolazioni di un pesce soprannominato in inglese come red handfish, ma noto anche con il nomignolo di pesce rosso scontroso o pesce dalle "mani".

Questa specie, il cui nome scientifico è Thymichthys politus, vive in alcune piccole aree al largo della barriera corallina della Tasmania e con appena un centinaio di esemplari rimasti allo stato selvatico è una delle specie di pesci a maggior rischio di estinzione dell'intero pianeta.

Famoso per essere un pesce "con le mani" – in realtà delle pinne modificate che gli permettono di "camminare" sulle superfici sconnesse della barriera  – questo organismo è diventato anche una delle specie più famose sui social media anche per via del suo sguardo, che a molti ricorda quello di una persona scontrosa. L'espressione di questo pesce non spiega tuttavia come mai nell'arco degli ultimi anni – che sono stati particolarmente traumatici per l'Australia, tra pandemia e il propagarsi d'incendi devastanti – questa specie abbia subito un calo così drammatico, a discapito del suo successo mediatico che in teoria avrebbe dovuto spingere verso una maggiore attenzione.

Un ecologo che sta lavorando proprio su questa specie, Tyson Bessell, ha cercato di spiegare questo paradosso affermando che è molto complicato tentare di svelare i segreti di un animale scoperto tra l'altro da pochi anni, mentre contemporaneamente si cerca di salvarlo dalla sua cattiva fama di animale "brutto" e dai pericoli che lo stanno spingendo silenziosamente verso l'estinzione.

«Di questa specie si conoscono due popolazioni – afferma il giovane scienziato che ha lavorato proprio su questi pesci durante il suo dottorato – Il sito che oggi ospita solo 10 individui, negli anni 90 veniva citato per avere centinaia di pesci, al punto che dovevi stare attento a dove mettevi piede nelle secche per non uccidere degli esemplari. Oggi invece, dopo poco più di venticinque anni, devi cercare per ore ed essere molto, molto bravo per trovarli, con appena 10 esemplari distribuiti in un'area grande quanto un campo da calcio».

Le principali minacce che rischiano di far sparire questa specie sono numerose. Il cambiamento climatico e l'inquinamento per esempio hanno ridotto notevolmente l'area della barriera corallina in cui questi organismi possono vivere o prosperare, visto che l'innalzamento delle temperature e l'aumento degli inquinanti stanno uccidendo letteralmente i coralli presenti tra i fondali in cui vivono questi animali. Anche però il pascolo eccessivo dei ricci di mare, aumentati a causa del declino dei loro predatori, e l'impossibilità di questi animali di spostarsi in altre zone – nuotando poco e male – stanno condannando la specie a un forte declino che potrebbe portarli a sparire nell'arco dei prossimi anni.

Perché però questa specie ha un areale così ristretto e cosa si può fare per aiutarlo?

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Questo pesce iniziò a colonizzare i fondali sottostanti le piccole barriere coralline della costa occidentale dell'Australia e della Tasmania quando cominciarono a nutrirsi dei piccoli organismi (alghe e piccoli animali) che vivevano al margine di questo ecosistema, che per quanto ricco di vita risultava parecchio ostile per la competizione con le altre specie. L'evoluzione ha così portato questi pesci a vivere principalmente degli scarti che scendevano fino al fondale dal resto dell'ecosistema, svolgendo oltre che il ruolo dei piccoli predatori anche quelli di spazzini.

Adattandosi a questa condizione, i pesci hanno sì evoluto "le mani" dalle pinne, molto utili per camminare sul fondale roccioso o sabbioso, ma hanno anche dovuto perdere la capacità di nuotare per lunghi tratti lontano dal reef, perdendo anche la vescica natatoria utilizzata dagli altri pesci per nuotare più velocemente e su maggiori distanze. E su questo Bessell è molto chiaro: si tratta di una specie che si muove pochissimo, un fattore che li rende lenti e suscettibili ai cambiamenti: «La distanza massima raggiunta da un esemplare nel mio studio è stata di 100 metri, ma questo "viaggio" è stato compiuto nell'arco di 540 giorni – afferma – La distanza più piccola invece è stata di 30 cm ed è stata compiuta in 500 giorni, con alcune settimane in cui l'animale sembrava perfettamente immobile, in attesa che il cibo gli cadesse dall'alto direttamente in direzione della bocca».

A peggiorare ulteriormente le cose, questi pesci non trascorrono le loro prime fasi di vita alla deriva come avannotti o le larve di altre specie all'interno della colonna d'acqua. Rimangono essenzialmente dove si schiudono le loro uova e il fatto che il loro sguardo torvo abbia spinto alcuni a ironizzare sulla vita difficile di questa specie, non ha permesso a molti di provare empatia con la specie, a differenza per esempio dei koala o dei canguri feriti durante l'incendio del 2020.

Per risolvere la situazione, Bessell e altri suoi colleghi hanno cominciato a fare una campagna educativa sul pesce con le "mani" e a lamentarsi con i media locali (della Tasmania e dell'Australia occidentale) di aver forse un po' troppo peso in giro l'animale, aggiungendo perché bisognerebbe prendersene maggiore cura. I ricercatori hanno inoltre cominciato a raccogliere con cura decine di uova per allevarli in cattività e sperare così, che alla loro schiusa, sia possibile portare i giovani direttamente in natura.

Per aiutare questi e altri animali del reef bisognerebbe però fare in modo con gli ecosistemi marini sopravvivano al cambiamento climatico in atto che sta sconvolgendo l'oceano. Bisognerebbe perciò limitare il consumo di combustibili fossili e inquinare di meno il mare, affinché le tossine non uccidano i molluschi di cui si nutrano i pesci. Bisognerebbe inoltre diminuire le quota di pesca e impedire alle ancore delle barche di rovinare il delicato habitat roccioso che funge da base di ogni colonia corallina. L'arrivo di fondi da parte di alcune associazioni aiuterebbe inoltre i biologi e gli ecologi locali ad aver maggior margine di manovra per studiare questa specie e individuare possibili soluzioni al suo declino.

La cosa più importante da fare al momento è, affermano i ricercatori, quello di far crescere la popolazione del sito demograficamente in maggiore difficoltà, cercando di contrastare gli effetti combinati del surriscaldamento globale e della moria dei coralli.

Sono laureato in Scienze Naturali e in Biologia e Biodiversità Ambientale, con due tesi su argomenti ornitologici. Sono un grande appassionato di escursionismo e di scienze e per questo ho deciso di frequentare un master in comunicazione scientifica. La scrittura è la mia più grande passione.
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