A due anni dallo scoppio della pandemia da COVID-19, un team di studiosi thailandesi ha dimostrato per la prima volta che un gatto domestico ha infettato una persona con il virus SARS-CoV-2, aggiungendo così, dopo i visoni e i criceti, i felini tra l'elenco degli animali che possono trasmettere il virus agli umani.
«Ce lo aspettavamo», spiega a Kodami Nicola Decaro, direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Bari, che rassicura: «La sorpresa è che ci sia voluto così tanto tempo, data l'entità della pandemia, perché la trasmissione da gatto a uomo fosse segnalata, soprattutto perché il gatto (più del cane) è sensibile all’infezione e perché esiste uno stretto contatto tra gatti e persone. Tuttavia, ai fini epidemiologici non cambia nulla: il gatto ha un ruolo pressoché inesistente, o tuttalpiù trascurabile, nella circolazione di SARS-CoV-2 nella popolazione umana».
Decaro ha condotto in Italia i primi studi sulla circolazione in cani e gatti di SARS-CoV-2 del Nord Italia durante la prima ondata pandemica, dimostrando che questi animali possono acquisire l’infezione dai pet mate infetti.
La scoperta, pubblicata su Emerging Infectious Diseases1 ad inizio giugno, è avvenuta per caso, come afferma il coautore Sarunyou Chusri, ricercatore di malattie infettive e medico alla Prince of Songkla University di Hat Yai, nel sud della Thailandia. Ad agosto, un padre e un figlio risultati positivi al Sars-CoV-2 sono stati trasferiti in un reparto di isolamento dell'ospedale dell'università. Anche il loro gatto, un soriano di dieci anni, è stato sottoposto a tampone ed è risultato positivo. Durante il test, il gatto ha starnutito di fronte a una veterinaria, che indossava una maschera e guanti ma non una protezione per gli occhi.
Nell'abstract dello studio, curato da 14 ricercatori, si ipotizza anche che, attraverso gli esami genetici, si possa supportare l'ipotesi di trasmissione del virus dal pet mate al gatto e poi dal gatto alla veterinaria. Per gli scienziati si tratta di un esempio vincente di buon tracciamento dei contatti nella ricostruzione della diffusione virale. Tre giorni dopo, infatti, la veterinaria aveva la febbre, raffreddore e tosse e in seguito è risultata positiva alla covid, ma nessuno dei suoi contatti stretti era stato contagiato, suggerendo che fosse stata infettata dal gatto. A conferma della supposizione è arrivata anche l'analisi genetica che ha confermato che la dottoressa aveva la stessa variante del gatto e dei suoi pet mate e che le sequenze genomiche virali erano identiche.
Direttore Decaro cosa sappiamo a oggi della trasmissione del virus tra gatti e gatti e tra gatti e persone?
«Al momento sappiamo che il gatto è sensibile all’infezione sperimentale con SARS-CoV-2 e, a differenza dei cani, può trasmettere l’infezione ad altri gatti. Sono stati riportati anche numerosi casi di infezione naturale ed è stato quasi sempre dimostrato un passaggio unidirezionale del virus dall’uomo al gatto, cioè in quasi tutti i casi i gatti hanno contratto l’infezione da persone infette, mentre la situazione opposta è molto più rara ed è attualmente testimoniata dal solo studio tailandese».
Uno studio così rischia di far spaventare le persone, possiamo rassicurare tutti?
«Non c'è da preoccuparsi! Il gatto al momento non rappresenta un pericolo per l’uomo. Anche se, come è probabile, ulteriori casi di trasmissione all’uomo dovessero essere segnalati si tratterebbe sempre di eventi rari o almeno sporadici che non influiscono sull’epidemiologia del virus. SARS-CoV-2, pur avendo un’origine zoonosica, riconosce, almeno per ora, una trasmissione prevalentemente interumana, per cui gli animali rivestono un ruolo marginale rispetto alla circolazione del virus tra le persone».
Quali altri animali si pensa possano trasmettere il virus?
«Un discorso diverso riguarda il ruolo che alcune specie animali possono svolgere come serbatoio naturale dell’infezione o, peggio, come ospiti in cui il virus può mutare e determinare l’insorgenza di nuove varianti, magari più aggressive per l’uomo o con la capacità di evadere la risposta immunitarie evocata dai vaccini. Attualmente gli animali sotto i riflettori della comunità scientifica sono due: i visoni ed i cervidi. I visoni sviluppano infezioni di una certa gravità e, soprattutto, rappresentano degli amplificatori e dei serbatoi del virus. SARS-CoV-2, una volta introdotto negli allevamenti di visoni, non solo è responsabile di forme cliniche gravi e mortalità, ma viene amplificato in maniera esponenziale e può essere ritrasmesso all’uomo. L’aspetto più rischioso di questi allevamenti di visoni deriva dal fatto che questi, a differenza di altri animali, una volta acquisita l’infezione da SARS-CoV-2 attraverso il contatto con l’uomo, possono contribuire a generare varianti virali con caratteristiche biologiche ed immunologhe nuove, che potrebbero reagire meno efficacemente ai vaccini a disposizione per l'uomo. Per quanto riguarda i cervidi, invece, è preoccupante la diffusione dell’infezione nei cervi dalla coda bianca in Nord America. È già stato segnalato negli Usa il caso di una persona infettata con un ceppo SARS-CoV-2 derivato dai cervi. Indagini epidemiologiche in alcuni stati americani hanno evidenziato una prevalenza molto alta del virus in questi animali e non si è ancora capito se ciò si possa spiegare solo come uno spill-over dall’uomo».
Ci sono stati degli sviluppi circa i vaccini per gli animali?
«Alcune case farmaceutiche hanno sviluppato vaccini per COVID-19 destinati a diverse specie animali sensibili all’infezione, compresi gli animali da compagnia. È bene precisare che questi vaccini non sono, al momento, disponibili in Italia. Ad ogni modo, la mia opinione è che i vaccini anti-covid abbiano un senso per alcune tipologie di animali, come i felidi ed i primati degli zoo, che potrebbero sviluppare forme gravi, anche mortali, di malattia, oppure i visoni di allevamento, per il rischio connesso alla trasmissione del virus all’uomo. Non ha senso invece ad oggi vaccinare a tappeto cani e gatti, perché non rappresentato un rischio epidemiologico importante per l’uomo e, tranne rare eccezioni, tendono a sviluppare forme non gravi di malattia».