Molto spesso si sente dire: "Ma con tutta la tecnologia che abbiamo, ancora c'è bisogno di sperimentare sugli animali?". La domanda quasi diventata retorica ha in realtà una risposta certa: sì, potremmo smetterlo di farlo e adesso è il Massachusetts Institute of Technology a spiegarci come.
Un interessantissimo articolo è infatti apparso sul sito MIT Technology Review, organo ufficiale dell'importante istituto di ricerca in cui si analizzano le nuove frontiere della tecnologia applicate proprio per evitare di utilizzare gli animali in laboratorio partendo dal dato di fatto che «gli studi sugli animali sono notoriamente inadeguati nell’identificare i trattamenti umani. Circa il 95% dei farmaci sviluppati attraverso la ricerca sugli animali falliscono nell’uomo. I ricercatori hanno documentato questo divario almeno dal 1962».
L'articolo, a firma della giornalista Harriet Brownarchive si intitola: "È arrivata la fine della sperimentazione animale?" e indaga in particolare sull'uso di una innovativa tecnica che consente di ricostruire le cellule umane degli organi più importanti attraverso l'uso di un chip.
Partendo dal presupposto di quanto sia fallace la sperimentazione su animali riportata poi sugli umani, Brownarchive ha intervistato il professore Sean Moore, un gastroenterologo pediatrico che lavora alla "School of Medicine" dell'Università della Virginia, che sta appunto testando dei chip particolari attraverso l'analisi accurata del rotavirus, un'infezione comune che causa grave diarrea, vomito, disidratazione e persino la morte nei bambini. «Negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, fino al 98% dei bambini vaccinati contro il rotavirus sviluppano un’immunità permanente. Ma nei paesi a basso reddito, solo circa un terzo dei bambini vaccinati diventa immune», spiega la gioralista e il professor Moore sta indagando per capirne le cause.
Moore ancora utilizza dei topi per alcuni protocolli, ma ha già compreso quanto sia poco efficace la sperimentazione su altri esseri viventi diversi dagli umani. «Tutte le aziende farmaceutiche sanno che i modelli animali fanno schifo», ha dichiarato nell'articolo Don Ingber, fondatore del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering ad Harvard e uno dei principali sostenitori di questi chip che, praticamente, "contengono" organi.
Ma di cosa si tratta, esattamente? La giornalista americana li definisce proprio “organi su chip", precisando che sono noti anche «come sistemi microfisiologici: possono offrire un’alternativa davvero praticabile». Si tratta di rettangoli polimerici flessibili delle dimensioni di una pennetta usb. «In realtà sono trionfi della bioingegneria – precisa – intricate costruzioni solcate da minuscoli canali ricoperti di tessuti umani viventi. Questi tessuti si espandono e si contraggono con il flusso di liquidi e aria, imitando le funzioni chiave degli organi come la respirazione, il flusso sanguigno e la peristalsi, le contrazioni muscolari del sistema digestivo».
Secondo i dati raccolti, già più di 60 aziende producono organi su chip a livello commerciale, concentrandosi su cinque organi principali: fegato, reni, polmone, intestino e cervello. «Vengono già utilizzati per comprendere le malattie, scoprire e testare nuovi farmaci ed esplorare approcci personalizzati al trattamento. Mentre continuano a essere perfezionati, potrebbero risolvere uno dei maggiori problemi della medicina odierna», precisa la giornalista.
Il professor Moore, così, sta ora testando proprio questi chip: «Se potessi trovare la risposta potresti salvare la vita di molti bambini» e lo farebbe senza aver violato la vita di altri esseri viventi.
Harriet Brownarchive non si è fermata però a descrivere l'attualità, ma nel suo articolo ha voluto far ben capire come questa idea abbia radici lontane, ovvero come un approccio diverso per tutelare la salute umana senza ledere quella di altre specie è da tempo sul campo. Il primo ad aver pensato a ipotesi alternative, ricorda la giornalista, «è stato Michael Shuler, professore emerito di ingegneria chimica alla Cornell. Negli anni 80, Shuler era un matematico e un ingegnere che immaginò un "animale su un chip", ovvero una base di coltura cellulare seminata con una varietà di cellule umane che poteva essere utilizzata per testare farmaci. Voleva posizionare una manciata di cellule di organi diversi sullo stesso chip, collegate tra loro, in modo da imitare la comunicazione chimica tra gli organi e il modo in cui i farmaci si muovono attraverso il corpo».
Quella ipotizzata da Shuler viene oggi definita «fantascienza» ma ci siamo comunque andati vicini con l'evoluzione della tecnologia e non è stato lui l'unico a ipotizzare metodi alternativi, sebbene ancora con l'utilizzo di parti animali, per combattere le malattie che colpiscono la nostra specie. Linda Griffith, professoressa fondatrice di ingegneria biologica al MIT, «progettò una prima versione rozza di un chip del fegato alla fine degli anni 90 – è riportato nell'articolo – un chip piatto di silicio, alto solo poche centinaia di micrometri, con cellule endoteliali, ossigeno e liquido che entrano ed escono tramite pompe, tubi in silicone e una membrana polimerica con fori microscopici. Ha inserito cellule epatiche di ratti nel chip e quelle cellule si sono organizzate in tessuto tridimensionale. Non era un fegato, ma modellava alcune delle cose che un fegato umano funzionante poteva fare. È stato un inizio».
Ma ciò che come scienziata, e non a caso donna, Griffith riuscì a capire è che le malattie croniche che colpiscono le donne tendono ad essere poco studiate, poco finanziate e scarsamente trattate. Si rese conto che decenni di lavoro con gli animali non avevano fatto nulla per migliorare la vita di donne come lei. «Abbiamo tutti questi dati, ma la maggior parte di essi non porta a trattamenti per le malattie umane – dice la ricercatrice nell'articolo – Puoi forzare i topi ad avere le mestruazioni, ma non sono vere e proprie mestruazioni. Hai bisogno dell’essere umano».
Dopo Shuler e Griffith, altri scienziati anche in Europa hanno lavorato su alcuni di quei primi chip, ma è intorno al 2009 che c'è la svolta, quando il laboratorio di Don Ingber a Cambridge, nel Massachusetts, ha creato il primo organo completamente funzionante su un chip. «Quel “polmone su chip” era costituito da gomma siliconica flessibile, rivestita con cellule polmonari umane e cellule dei vasi sanguigni capillari che “respiravano” come gli alveoli – minuscole sacche d’aria – in un polmone umano».
Ad oggi, comunque, in laboratori di tutto il mondo sono stati realizzati chip di fegato, cervello, cuore, reni, intestino e persino un sistema riproduttivo femminile con cellule di ovaie, tube di Falloppio e utero che rilasciano ormoni e imitano un vero ciclo mestruale di 28 giorni. «Ciascuno di questi chip esibisce alcune delle funzioni specifiche degli organi in questione. I chip cardiaci, ad esempio, contengono cellule cardiache che battono proprio come il muscolo cardiaco, consentendo ai ricercatori di modellare disturbi come la cardiomiopatia».
Ancora ci sono margini per migliorarli e si continua a studiarli, però. E i costi, purtroppo, sono molto alti: «Il modello base di Emulate, che dall'esterno sembra una semplice scatola rettangolare, parte da circa 10 mila dollari. La maggior parte delle cellule umane proviene da fornitori commerciali che organizzano donazioni da pazienti ospedalieri. Durante la pandemia, quando le persone hanno subito meno interventi chirurgici facoltativi, molte di queste fonti si sono esaurite. Man mano che i sistemi microfisiologici diventano sempre più diffusi, sarà fondamentale trovare fonti affidabili di cellule umane».
Questi chip, dunque, se riusciranno a trovare una strada comune nella diffusione e nella produzione, alla fine ridurranno la necessità di animali in laboratorio fino a eliminarla e porteranno a risultati migliori sull’uomo. «Ci sono aspetti della ricerca sugli animali che mettono tutti noi a disagio, anche le persone che la fanno – conclude il professor Moore – I valori che ci mettono in difficoltà riguardo alla ricerca sugli animali sono anche gli stessi che ci mettono a disagio nel vedere gli esseri umani soffrire di malattie per le quali non abbiamo ancora cure. Quindi cerchiamo sempre di bilanciare il desiderio di ridurre la sofferenza in tutte le forme in cui la vediamo».
La ricerca scientifica dunque è bene sapere che non è lontana dal trovare soluzioni alternative, anzi, come scrivevamo già ce le ha ed è anche importante sapere che ci sono ricercatori e scienziati che operano in questo senso e da tempo. A prova di ciò, recentemente è stata pubblicata anche "La Dichiarazione di New York sulla coscienza animale": si chiama così il documento importantissimo che è stato prodotto da un gruppo di noti ricercatori che hanno indagato la cognizione degli animali e hanno voluto produrre un documento, presentato alla New York University, per sensibilizzare attraverso dati scientifici il mondo accademico sul dato di fatto che gli altri animali sono esseri senzienti.