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Perché il cane è stato il primo animale a essere addomesticato?

Ad un certo punto della nostra storia abbiamo incontrato una particolare sottospecie di lupo che aveva in sé delle caratteristiche molto peculiari. Tra queste la dote che lo rendeva particolarmente disponibile alla socializzazione con altre specie animali. E, per qualche ragione, scelse soprattutto la nostra specie, diventando così il cane che oggi conosciamo.

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Membro del comitato scientifico di Kodami
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A un certo punto della nostra storia abbiamo incontrato una particolare sottospecie di lupo che aveva in sé delle caratteristiche molto peculiari. Tra queste la dote che lo rendeva particolarmente disponibile alla socializzazione con altre specie animali. E, per qualche ragione, scelse soprattutto di frequentare gli esseri umani, diventando così il cane che oggi conosciamo.

Prima di proseguire è necessario fare un appunto per evitare che vi siano fraintendimenti futuri. Nella lingua italiana i due termini “domestico” e “addomesticato” hanno una certa assonanza ed è facilmente comprensibile che si possano confondere o utilizzare come sinonimi. Ma non lo sono affatto.

Domestico e addomesticato, la differenza

Nell’introduzione dell’interessante testo di Juliet Clutton-Brock, “Storia naturale della domesticazione dei mammiferi” (ripubblicato nel 2017 da Bollati Boringhieri) compare una nota del revisore che puntualizza il significato dei due termini perché nella lingua inglese i due aggettivi non sono confondibili come nella nostra lingua. “Domestico” è domestic, mentre “addomesticato” è temed.

Ricordiamo quindi che, come è scritto nel libro di Clutton-Brock: “Per animale addomesticato si intende un individuo, appartenente ad una specie selvatica, reso docile e tollerante nei confronti dell’uomo; per animale domestico si intende invece un animale appartenente a una specie la cui forma e il cui comportamento sono stati modificati profondamente, così che il suo benessere e la sua sopravvivenza dipendono ora dalla sua relazione con la società umana…”.

Quindi vi sono animali che hanno subito un processo di cambiamento dalla loro forma selvatica (naturale) per divenire dipendenti dalla relazione con l’uomo, come per esempio il cane, il gatto (anche se qui, effettivamente, ci sarebbe da chiarire chi è realmente dipendente da chi), alcuni uccelli (galline e tacchini, eccetera) e altri. Poi ci sono altri animali, che magari sono stati “costretti” a tollerare l’uomo pur continuando ad appartenere a specie selvatiche, come per esempio in molti casi i grandi felini. In questo caso si parla di singoli individui e non di una specie animale: quel ghepardo vive nella villa di un magnate egiziano; quel leone nella tenuta del ricco proprietario terriero; quel lupo si fa accarezzare e vive a stretto contatto con l’uomo. E così via.

Gli a-priori degli animali selvatici

Una domanda che potremmo farci, a questo punto, è: perché solo alcuni animali sono stati domesticati? Perché, per esempio, il cavallo sì e la zebra no? Partiamo dal presupposto che, vista la natura umana, abbiamo tentato di domesticare (controllare) tutte le specie animali e vegetali che nell’arco della nostra storia abbiamo incontrato, a partire da quella che viene chiamata “Rivoluzione agricola” avvenuta 12 mila anni fa. Ricordandoci che noi siamo, come specie, raccoglitori-nomadi, ecco che un evento sconvolgente da tutti i punti vista ha aperto le porte a insediamenti umani stabili e al concetto di proprietà, al controllo sistematico dell’ambiente piuttosto che all’adattamento ad esso. Ci sarebbero qui molte considerazioni da fare, ma ci porterebbero un po’ lontani dalla nostra traccia.

Alla domanda “perché solo alcuni animali sono stati domesticati”, lo studioso Jared Diamond prova a dare alcune risposte interessanti nel suo splendido saggio: “Il terzo scimpanzé – Ascesa e caduta del primate Homo sapiens" (Bollati Boringhieri 1994). Nel suo libro Diamond, professore di fisiologia dell’Università della California con sede a Los Angeles, sostiene che nella forma selvatica la specie animale debba avere in sé delle caratteristiche che ne consentano la domesticazione. Un processo comunque conseguente all'addomesticamento dei primi individui, i capostipiti. Quindi vi debbono essere degli a-priori, altrimenti il salto non può avvenire o non è conveniente che avvenga, come vedremo tra poco.

Naturalmente il cane, che è in assoluto il primo animale ad aver fatto questo salto, ha tutti gli ingredienti in sé che lo resero papabile per questo, diciamo, esperimento. E forse, ma dico forse, fu proprio la convivenza con il cane a dare l’intuizione all’uomo che si potesse esercitare una qualche forma di controllo sulle altre specie animali. Con il senno di poi guardo il mio cane, che adesso mi ronfa accanto, con un’ombra di disappunto.

Quali sono dunque questi a-priori identificati da Jared Diamond? Ne elenca principalmente sei:

  • Abitudini alimentari – Se un animale ha una dieta troppo specializzata diventa difficile allevarla. Per esempio il Koala (Phascolarctos cinereus) si nutre esclusivamente della pianta di eucalipto, che cresce esclusivamente – o quasi – nelle zone costiere dell’Australia orientale. Niente eucalipto, niente Koala domestico. Oppure una dieta che rende l’animale particolarmente costoso da mantenere in stato di cattività. Lo sanno bene i gestori degli zoo quando hanno a che fare con i grandi carnivori.
  • Tasso di crescita – Per avviare un allevamento è necessario operare una selezione dei riproduttori, ma se gli individui di una specie raggiungono la maturità sessuale dopo anni, come per esempio nel caso dell’elefante indiano (Elephas maximus indicus), circa 11 anni, è facilmente comprensibile il perché questi non siano domestici, ma addomesticati.
  • Riproduzione in cattività – L’’etogramma di ogni specie definisce – tra le altre cose – il comportamento sessuale di una specie e le condizioni ottimali perché i rituali di corteggiamento e l’accoppiamento avvengano e la condizione di cattività influenza negativamente molte specie (come biasimarle). Per esempio la vigogna (Vicugna vicugna) dalla pregiatissima lana, come ben sapevano gli Inca, e come sanno i moderni allevatori, che sono costretti a catturare individui selvatici per procurarsi ciò che vogliono.
  • Carattere – Una specie deve essere sufficientemente docile per poter essere gestita, quindi avere in sé la possibilità di tollerare l’uomo e le sue manipolazioni senza causare eccessivi rischi. Allevare, per esempio, orsi Kodiak (Ursus arctos middendorffi) non è affatto consigliabile, non solo per le sue mastodontiche dimensioni, ma anche per il suo livello di potenziale aggressività che lo renderebbero ingestibile.
  • Tendenza al panico – La maggior parte delle specie selvatiche hanno una distanza di fuga eccessiva per poter essere rinchiuse in un recinto o in una gabbia, come per esempio le gazzelle e le antilopi. Quando fu tentato l’allevamento di queste specie animali il loro panico, dato dalla presenza umana, faceva sì che si gettassero contro le recinzioni spezzandosi le gambe o morendo per l’impatto. Ciò è economicamente sconveniente per un allevatore.
  • Struttura sociale – L’etogramma di ogni specie animale ne definisce anche il grado di socialità e socievolezza. Dispone gli animali ad avere la necessità di vivere in gruppi più o meno estesi e nel riconoscere una guida tra i membri del gruppo. È così, per esempio, per i cavalli, per le pecore, per le vacche. E questo offre la possibilità all’uomo di inserirsi – subdolamente, mi verrebbe da dire – nel gruppo degli animali da governare, socializzati con lui. Per altre specie animali, che non vivono in gruppi sociali, che quindi mal tollerano sia la presenza dei conspecifici che quella di altre specie animali, diventa difficile pensare di farne animali da reddito allevati in cattività, come per esempio nel caso del rinoceronte bianco africano (Ceratotherium simum).

Il cane, o proto-cane, ha in sé molte caratteristiche che hanno favorito quindi l’inclusione all’interno della sfera intima e domestica dell’uomo di 40 mila anni fa. Offriva dei vantaggi ai nostri antenati e, parimenti, da essi ne traeva.

Se fin qui abbiamo considerato gli a-priori degli altri animali, arriverà poi il momento di fare delle considerazioni sulle caratteristiche dell’Homo sapiens per scavare nella relazione con il cane. Infatti non basta osservare un elemento di una relazione per cercare di comprenderla, bisogna tener in considerazione anche l’altro visto che una relazione nasce da almeno due elementi.

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Luca Spennacchio
Istruttore cinofilo CZ
Ho iniziato come volontario in un canile all’età di 13 anni. Ho studiato i principi dell’approccio cognitivo zooantropologico nel 2002; sono docente presso diverse scuole di formazione e master universitari. Sono autore di diversi saggi.
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