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28 Febbraio 2021
9:21

Perché ci siamo avvicinati agli animali? Quando tutto è iniziato

L'uomo ha una naturale propensione verso le specie animali non umane, e il motivo che ne è alla base è stato indagato e discusso da scienziati e filosofi. Perché siamo così interessati a relazionarci con gli animali? Un viaggio nella nostra specie per fare delle considerazione sulle nostre naturali pulsioni.

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Membro del comitato scientifico di Kodami
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Un bimbo allunga una mano, tiene un filo d’erba. La mamma lo osserva compiaciuta, mentre il cavallo che gli torreggia davanti si china e prende il piccolo dono. Una scena tutt’altro che rara. Ma cosa c’è di interessante in tutto questo? Perché quel bambino compie quel gesto? Perché la madre lo guarda compiaciuta? Proviamo a fare un viaggio nella nostra specie e fare delle considerazioni sulle naturali pulsioni che ci spingono ancora oggi a relazionarci con gli altri animali, in particolar modo con il nostro cane.

Varie ipotesi

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Un esempio di come può emergere la forma animale anche se nascosta

Diversi studiosi, in differenti discipline, si sono posti domande sulla nostra naturale propensione ad interagire con le altre specie animali. Ognuno di loro mette in risalto alcuni aspetti delle nostre pulsioni innate, delle nostre disposizioni di specie, e prova ad ipotizzare quali siano gli elementi cognitivi salienti che ci portano, alla fin fine, a vivere con un cane, un gatto, un pappagallino, un coniglio, eccetera.

Per esempio Paul Shepard, ecologo e ambientalista americano, filosofo e autore, osserva come la specie umana possieda un’elettività innata verso le forme animali ed una migliore capacità di rilevarla rispetto ad altre forme. L’elettività percettiva nei confronti delle forme animali è stata dimostrata da una ricerca nella quale venivano mostrati, ad alcune persone, dei disegni contenenti forme nascoste. Quando la figura nascosta era una forma animale, questa veniva percepita nel 90% dei casi, diversamente, ovvero nel 40% dei casi se si trattava di altre figure.

D’altra parte, se ci pensiamo bene, a quanti noi è parso di scorgere tra le nuvole la forma di un animale? Quante volte tra i solchi e le crepe di un muro? Pare proprio che il nostro cervello sia molto bravo nel farlo e sicuramente questo ha un significato evolutivo profondo. Riconoscere un animale nel fitto del fogliame ha certamente numerosi vantaggi, ci può salvare da un predatore, per esempio. Ma questa predisposizione non va considerata solo da questo punto di vista, il fatto che abbiamo la testa piena di animali è certamente un importante indizio da tener presente.

Gli animali come referenti cognitivi

Secondo lo studioso Irenaus Eibl-Eibesfeldt, etologo austriaco, allievo di Konrad Lorenz, e autore di numerosi saggi, l’animale diventa un referente cognitivo, un partner a cui l’uomo si riferisce quando osserva, cataloga, immagina e struttura la realtà. A tal proposito vorrei fare un esempio estratto da un dialogo in un noto film del 2004 dal titolo “Oceano di fuoco – Hidalgo” con Viggo Mortensen che interpreta il personaggio principale, Frank Hopkins. C’è un dialogo tra lui e la figlia dello sceicco nel quale dice: «Scun kaua kan, grosso cane. Non esiste una parola Sioux per dire cavallo. Quando gli indiani videro i cavalli degli spagnoli e come questi animali divenissero loro amici per la vita, pensarono che dovesse essere un animale sacro» e dunque lo poterono paragonare solo a ciò che già conoscevano per dargli un nome, ovvero al cane.

Questo fatto viene anche riportato nel libro di recente pubblicazione di Susan McHugh dal laconico titolo “Il cane”. Ricordo un documentario nel quale un biologo marino, Roberto Bubas, autore del libro “Augustìn Cuoreinmano” aveva stretto amicizia con una famiglia di orche nelle fredde acque della Patagonia. Gli animali avevano presto imparato a riconoscerlo, sul suo kayak, e lo raggiungevano quando le richiamava. Ebbene, mi venne naturale pensare: “Ma guarda, proprio come un cane…”.

La relazione con il cane è talmente radicata in noi che diviene metro e misura per la relazione con gli altri animali, ma bisogna prestare molta attenzione perché questo ci predispone anche al fraintendimento e, alle volte, a tragici errori.

La teoria della biofilia

Edward Osborne Wilson, biologo statunitense, nonché fondatore della sociobiologia, afferma che l’uomo possiede una sorta di “elettività innata” per l’animale non umano. Elettività che è rintracciabile sin dai primi anni di vita quando si manifesta la preferenza, da parte del bambino verso la forma animale e verso tutto ciò che è animato.

Ricordo quando da bambino rimanevo affascinato nell’osservare le formiche trasportare enormi briciole di pane, tutte in colonna, ordinate. O un piccolo ragno intento nel tessere la sua complicata tela, in realtà ancora oggi resto a bocca aperta davanti a questi spettacoli di ingegneria. Indubbiamente questa vulnerabilità dell’uomo nei confronti degli altri animali è largamente sfruttata anche nell’ambito della pubblicità dove spesso sono presenti animali anche quando viene commercializzato qualcosa che non ha nulla a che fare con loro. E non è certo qualcosa di “moderno”. Molti reperti archeologici di manufatti, di oggetti di utilizzo quotidiano, come vasi, ciotole, ma anche giocattoli, risalenti a migliaia di anni fa, sono stati costruiti e pensati riproducendo la forma di uno o più animali.

Se su una tazza c’è l’immagine di un gattino, beh, state certi che venderà di più.

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Luca Spennacchio
Istruttore cinofilo CZ
Ho iniziato come volontario in un canile all’età di 13 anni. Ho studiato i principi dell’approccio cognitivo zooantropologico nel 2002; sono docente presso diverse scuole di formazione e master universitari. Sono autore di diversi saggi.
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