Le cure parentali dovrebbero servire a garantire la sopravvivenza dei piccoli. Eppure, alcuni genitori consumano la propria prole vitale, sono cioè, a tutti gli effetti, cannibali. E il cannibalismo filiale non è nemmeno così raro nel regno animale.
Perché alcuni animali mangiano i figli? La scienza non ha ancora trovato una risposta definitiva a questa domanda.
Ciò che si sa, per ora, è che la necessità del genitore di soddisfare il proprio fabbisogno energetico, le aspettative riguardo alla sopravvivenza e alla competizione per le risorse della prole, o, ancora, le previsioni sulla possibile successiva competizione per i partner sessuali sono tutti fattori potenzialmente utili a spiegare il significato adattativo del cannibalismo filiale. È probabile, tra l’altro, che sia la combinazione di queste motivazioni, più che il singolo fattore, a spiegare tale fenomeno.
Il fabbisogno energetico del genitore
Prendersi cura dei figli stanca e richiede tanta energia e questo siamo in tanti a saperlo. La necessità del genitore di soddisfare le proprie aumentate richieste energetiche è forse l'ipotesi più accreditata del cannibalismo filiale come strategia adattiva. Consumando la prole, insomma, un genitore anche premuroso ottiene energia e nutrienti che può poi reinvestire nella riproduzione futura, aumentando così il successo riproduttivo netto. Se alla base del fenomeno c’è proprio questa ipotesi, è facile aspettarsi che esso aumenti al diminuire della disponibilità di cibo, e quando i fabbisogni dei genitori sono particolarmente elevati.
La sopravvivenza dei piccoli
In presenza di nidiate molto numerose, i genitori possono uccidere e mangiare alcuni piccoli per migliorare la sopravvivenza di quelli che rimangono. In questo senso, il cannibalismo filiale può essere un meccanismo mediante il quale i genitori riducono le dimensioni della nidiata per rispondere alla prevista competizione per le risorse tra la loro prole, una volta cresciuta, o eliminano i piccoli più fragili, per garantire cure migliori a quelli più sani e forti, aumentando così le loro già più alte probabilità di sopravvivere.
Quali animali uccidono e mangiano i propri figli?
Il cannibalismo filiale è stato registrato in più di 500 specie di vertebrati, con una netta prevalenza nei taxa che esibiscono cure parentali. Episodi di cannibalismo materno si osservano comunemente nell'arvicola (Clethrionomys glareolus), nel fringuello domestico (Carpodacus mexicanus), nel ragno lupo (Pardosa milvina), ed è noto che entrambi i genitori del coleottero seppellitore (Nicrophorus orbicollis) consumano la loro prole.
Il cannibalismo filiale è ben documentato in 200 specie di pesci, sia in natura che in allevamento, specialmente in quelle con cure paterne delle uova. Esiste un tipo di bavosa (Rhabdoblennius nitidus), trovato in Asia, che ha una disposizione genitoriale particolarmente insolita. Le femmine depongono le uova e poi lasciano ai padri la gioia di presedersene cura fino alla schiusa, cosa che, di solito, fanno anche molto bene.
Quando però il numero di uova è piccolo (meno di 1.000), tac! Poco dopo aver iniziato a prendersene cura, nei padri la spinta all’accudimento inverte la direzione, e le mangiano tutte! A far cessare questi maschi di essere premurosi sono gli androgeni.
La presenza di uova nel nido è uno stimolo chiave per la regolazione dei livelli di questi ormoni: fino a quando non sono rimosse tutte, questi non si rialzano e quindi i maschi non possono riprendere il corteggiamento. Talvolta le uova vengono sputate senza essere consumate e in questi casi è più appropriato parlare di infanticidio piuttosto che di cannibalismo.
Il cannibalismo filiale si ritrova anche nelle cagne. A volte capita che una cagna giovane e inesperta strappi il cordone ombelicale con troppa veemenza e, accidentalmente, insieme agli invogli fetali, ingerisca anche il neonato. In altre circostanze è come se il sistema neurobiologico della cagna andasse in cortocircuito: i suoi livelli di ossitocina, al parto, invece di alzarsi, si abbassano al punto da scatenare, nel post-partum, una forte aggressività verso la propria stessa prole.
Anche questa è un’evenienza più comune al primo parto. La tendenza al cannibalismo può anche essere un tratto ereditario e per questo è consigliabile escludere dalla riproduzione la femmina che se ne sia resa responsabile.
Bibliografia
Klug, H. & Bonsall, M. (2008). When to Care for, Abandon, or Eat Your Offspring: The Evolution of Parental Care and Filial Cannibalism. The American naturalist, 170.
Matsumoto, Y. et al. (2018). Filial Cannibalism by Male Fish as an Infanticide to Restart Courtship by Self-Regulating Androgen Levels, Current Biology, 28(17):2831-2836.
F. Pirrone. Un'etologa in famiglia : Genitori, figli e parenti scomodi nel regno animale. Edizioni Unicopli, 2020. (COSÌ PARLÒ LA VOLPE)