Camminando per il parco, uno a caso di una qualsiasi città, dove si trovino degli animali come carpe, germani reali, cigni, piccioni, eccetera, è facile imbattersi in una serie di cartelli con su scritto: “Divieto assoluto di dar da mangiare agli animali!”.
La presenza di questi cartelli è spiegata dalla naturale propensione delle persone che sembrano non resistere alla tentazione di offrire del cibo a tutti gli animali che incontrano. Cosa c’è di male in tutto ciò? Sembrerebbe nulla, ma le cose non stanno così. Il fatto interessante è comunque questa pulsione a mettere in atto uno dei più forti comportamenti legati alle cure parentali, ossia nutrire l’altro. Il nostro legame con il cibo è certamente importante, ma lo è in modo particolare anche per il fatto che siamo mammiferi e che nel nostro DNA risiedono i crismi per indurci a prenderci cura dell’altro in modo assiduo.
Il bisogno di nutrire
Non siamo certo l’unica specie animale che ha queste pulsioni, possiamo azzardare che per tutte le specie sociali sia così, soprattutto per quelle che necessitano un periodo di accudimento dei propri piccoli relativamente lungo. Però siamo certo la specie che ha investito moltissimo, nella storia evoluzionistica, sulle cure parentali e pare che questo ci renda vulnerabili al metterle in campo ogni qualvolta ci si presenti l’occasione. In cambio otteniamo un senso di appagamento e soddisfazione. Un po’ come fa una nonna con il nipotino ingozzandolo di biscotti, rimanendo con gli occhi illuminati in contemplazione mentre li divora. Guai ad impedirglielo!
Quante volte vi sarà capitato di vedere delle persone sul bordo di un corso d’acqua con addirittura sacchetti interi di pane secco, biscotti secchi, e altri avanzi, passare intere ore a lanciare cibo agli anatidi di turno, i quali sono ben felici di rendere a loro volta felici i sapiens… Ma non sempre l’esito è positivo per gli altri animali: non è affatto detto che quello che diamo loro sia appropriato. Ed ecco spiegata una delle possibili ragioni del divieto.
Pulsioni innate
Ci sono anche altre interessanti pulsioni dell’uomo che possono aiutarci a comprendere il perché viviamo con gli animali. Per esempio, oltre all’appagamento che riceviamo nel prendercene cura, c’è il fatto che siamo etologicamente dei raccoglitori.
La propensione alla raccolta e al collezionare cose si è dimostrata funzionale alla nostra evoluzione, siamo strutturati sia fisicamente (mani molto abili e libere di muoversi grazie alla stazione eretta, per esempio) che cognitivamente (traiamo piacere nel farlo) per la raccolta. Ecco che allora questa pulsione ci spinge a collezionare figurine, tappi delle bottiglie, biglietti del tram, francobolli, conchiglie e, ebbene sì, anche animali di altre specie. Questa spinta ci rendeva abili nello scovare bacche, funghi, radici e quant’altro, ma oggi queste attività non hanno più un valore legato alla sopravvivenza e sono mutate, possiamo azzardare, in una cultura occidentale votata al consumismo, che ha varie declinazioni e assume molte forme.
Questa motivazione alla raccolta, unitamente con la facilità con la quale dispensiamo cibo agli animali, è qualcosa di molto ancestrale, che ci appartiene e ci muove dal profondo, anche in modo inconsapevole. Certo, ci sono le eccezioni, ma dato il gran numero di animali con i quali la nostra specie intreccia relazioni, azzarderei a dire che sia una peculiarità propria dei sapiens, quantomeno per quanto concerne l’intensità e la frequenza di questi comportamenti.
Queste caratteristiche fanno da cardine alla teoria della «zootropia» proposta dal dottor Roberto Marchesini, noto zooantropologo italiano e prolifico saggista: «La relazione affettiva si basa sulla gratificazione espressiva di un comportamento epimeletico, cioè di un comportamento pro-sociale che si esplicita nel dare cura e avviene in risposta a un comportamento et-epimeletico definibile come un insieme di segnali (comportamenti, forme) di richiesta di cure, aiuto e sostegno.»
Il cane e quel cordone ombelicale tra l'uomo e la natura
Torniamo quindi alla domanda originale: Perché viviamo con il cane? Quello che appare chiaro è che vi sono molte caratteristiche della nostra specie che ci dispongono alla relazione con gli altri animali e il cane pare proprio il campione, tra tutti gli animali, nel rendersi disponibile a questo tipo di interazione, sin dalla notte dei tempi. Certamente noi umani e i cani abbiamo anche trovato un mutuo beneficio nella convivenza, ma mi sono fatto l’idea che il motore principale della relazione non sia il mero aspetto utilitaristico, aspetto che, semmai, emerge in un secondo tempo proprio dalla relazione. D’altro canto non credo ci siano mai stati in passato così tanti cani nelle case degli europei come al giorno d’oggi, eppure gli individui che sono attivamente impiegati in una attività, diciamo, economicamente vantaggiosa per gli umani sono certamente una piccolissima minoranza.
Vedo il cane come una sorta di cordone ombelicale tra l’uomo moderno e la natura, intesa anche come natura stessa dell’uomo. Posso pensare anche al cane come una sorta di ambasciatore che ci sprona soprattutto da un punto di vista cognitivo al dialogo e alla comprensione delle altre specie viventi. Ma non è sufficiente vivere con un cane, con una relazione molto superficiale, ci vuole impegno e fantasia per lasciarsi condurre da lui in profondità.
Comunque sia è chiaro che i livelli di lettura possono essere molti e, per quanto mi riguarda, pensare che io vivo con un cane perché mi serve a svolgere un compito mi appare alquanto sterile, è un pensiero che non avrebbe retto il vaglio del tempo per oltre 40mila anni…
A questo punto non mi resta che rispolverare una vecchia considerazione che chiudeva un racconto breve nel mio libro “Uno+uno=Infinito” (Haqihana, 2009): «Perciò, a questo punto, il quesito veramente interessante da porsi non è tanto perché qualcuno viva con un cane, ma, semmai, perché non lo faccia…»