Eliminare del tutto gli allevamenti e ripristinare la vegetazione spontanea abbatterebbe del 68% le emissioni di gas serra e potrebbe salvare il Pianeta. Questa decisa dichiarazione di guerra contro il consumo eccessivo di carne è il risultato di un nuovo studio condotto da Michael Eisen, professore di Biologia molecolare e cellulare alla University of California e Patrick Brown, professore emerito di Biochimica alla Stanford University e appena pubblicato sulla rivista PLOS Climate.
Secondo gli autori, il tema su cui la comunità scientifica dibatte oggi, ovvero la valutazione quantitativa dell’impatto degli allevamenti intensivi sul clima e le azioni da intraprendere per mitigare il problema dell'inquinamento e delle emissioni di gas serra dovuti agli allevamenti stessi, è presto risolto.
Non c’è una quantità possibile, perché l’unico modo di fare davvero qualcosa è eliminare del tutto la carne dalle nostre tavole.
Lo studio ha misurato, attraverso un modello climatico, l’effetto combinato tra l’eliminazione totale delle emissioni di gas serra dovute agli allevamenti e il ripristino della vegetazione nativa sul 30% della superficie terrestre attualmente utilizzata per ospitare e nutrire il bestiame. E ha stimato che eliminare completamente gli allevamenti nei prossimi 15 anni, sostituendoli con la vegetazione nativa e spontanea, porterebbe a una riduzione globale netta del 68% delle emissioni di anidride carbonica.
Le due azioni insieme, secondo le loro rilevazioni, avrebbero come conseguenza una diminuzione delle emissioni di metano e degli ossidi di azoto e, allo stesso tempo, la conversione di 800 miliardi di tonnellate di anidride carbonica da parte di foreste, prati e biomassa del suolo. Questo significherebbe una riduzione dei livelli atmosferici dei tre principali gas serra, indispensabile per evitare la catastrofe climatica.
La novità della ricerca sta nell’aver introdotto nel dibattito, concentrato finora solo sugli allevamenti intensivi, l'effetto della sostituzione di questi ultimi con foreste e vegetazione nativa, in grado di ricatturare l'anidride carbonica dall'atmosfera.
Il sistema alimentare creato dall’uomo è sicuramente uno dei sistemi più impattanti sull'ambiente. La filiera del cibo da sola vale circa il 34% delle emissioni globali e mangiar carne, in particolare, significa emettere una enorme quantità di gas serra liberati dai processi di produzione che vanno dalla stalla alla tavola.
L’enorme impronta carbonica del settore alimentare e in particolare di quello dell’allevamento e della produzione della carne è dovuta in gran parte al disboscamento per creare spazio per i pascoli o per far crescere mangime destinato al bestiame.
I numeri fanno capire meglio la dimensione del problema: infatti, se gli insediamenti umani occupano appena l'1% delle terre emerse e la produzione di cibo consumato dall'uomo circa il 7%, addirittura il 27% è destinato alla pastorizia e alla coltivazione di cibo per il bestiame.
Nonostante la maggiore consapevolezza dei pessimi effetti che le nostre diete hanno sul clima a livello globale, secondo uno degli ultimi studi, questa volta realizzato dall'Università di Sydney, il consumo di carne cresce ed è passato da 29,5 chili per persona all'anno nei primi anni 2000, a 34 chili oggi. Il problema, però, è che ogni singolo grammo di carne emette la sua piccola parte di gas serra, portando il conto complessivo di anidride carbonica equivalente liberata a 7,1 miliardi di tonnellate, il 14,5% del totale.
Giusto per fare un esempio, produrre un chilo di manzo, il prodotto più "inquinante”, vale 300 chili di CO2 emessa. Seguono i piccoli ruminanti come capre e pecore con 165 chili di anidride carbonica per chilo, mentre pollo e maiale hanno impronte ecologiche relativamente meno marcate e inferiori ai 100 chili di CO2 per chilogrammo.
L’Italia, tra i paesi analizzati dallo studio, sembra essere uno di quelli in cui il consumo di carne e prodotti animali ha raggiunto il suo picco e cominciato la sua lenta discesa mostrata da recenti elaborazioni su dati Fao, passando dagli 81,4 chili pro-capite del 2010 ai 76 chili di oggi.
Ora, è chiaro che il cibo che mangiamo sia una scelta personale, ma per le implicazioni che ha su clima, ambiente e salute pubblica, è necessario che diventi anche sempre più una scelta ben informata. Una scelta che, oggi più che mai, richiede grande consapevolezza e regole più stringenti e virtuose da parte di governi e istituzioni.