In un periodo già contraddistinto dai rincari per l’energia, dalla crisi pandemica, dalla siccità e da una cronica mancanza di forza lavoro dovuta al mutamento degli stili di vita e delle scelte dei più giovani, la zootecnia siciliana si ritrova a dover affrontare un altro brutto colpo che rischia di provocare ulteriori debiti nelle tasche degli allevatori.
Nelle scorse settimane infatti è stato individuato un capo infetto all’interno di un allevamento di bovini della Provincia di Trapani, la cui malattia è stata identificata dai veterinari locali come EHD –Malattia Emorragica epizootica.
Tale malattia non era mai stata segnalata sull’isola e prima della Sicilia, solo la Sardegna ha avuto segnalazioni di capi bovini colpiti da questa patologia.
Il virus dell’EHD colpisce i ruminanti e per quanto non desta la stessa paura del virus Covid-19 all'orecchie del pubblico, in quanto non si trasmette dagli animali all’uomo, il suo arrivo in Sicilia sta provocando parecchio subbuglio, in quanto potrebbe mettere a rischio la salvezza delle mandrie e – soprattutto – i futuri guadagni per gli allevatori.
Che cos'è la malattia emorragica epizootica
La EHD è una malattia che principalmente coinvolge i ruminanti selvatici – principalmente daini e cervi – ma che nel corso dei decenni spesso è riuscita ad attaccare anche i bovini, soprattutto nei luoghi in cui la distanza fra animali domestici e selvatici è ridotta (come nei casi di allevamento all’aperto) o il numero di capi delle mandrie è così elevato da predisporre il virus a diffondersi facilmente tramite una epidemia.
Della biologia del virus di EHD sappiamo relativamente poco.
Scoperto come virus pandemico del cervo dalla coda bianca americano (Odocoileus virginianus), il virus di EHD appartiene al genere Orbivirus e negli scorsi decenni ha falcidiato pesantemente gli allevamenti dell’Africa subsahariana e della catena dell’Atlante, inducendo migliaia di allevatori ad abbandonare i loro capi e il loro vecchio mestiere, per migrare nelle città e in direzione dell’Europa.
È accertato che il virus si trasmette tramite il morso di un moscerino portatore. Molte specie diverse di Culicoides possono trasportare questo virus, ma si ritiene che il vettore più comune sia Culicoides variipennis, almeno per quanto riguarda le popolazioni americane e africane.
I segni clinici della malattia sono molto caratteristici. In generale, i bovini infetti perdono l'appetito, si indeboliscono e mostrano una salivazione eccessiva. Inoltre sviluppano una frequenza respiratoria rapida, mostrano segni di febbre, perdita di conoscenza e lingua blu, a causa della mancanza di ossigeno nel sangue. Le teste e i colli dei cervi infetti possono invece gonfiarsi, come se fossero colpiti da idrocefalia. Una delle caratteristiche più comuni dei cervi e dei bovini con la forma cronica di EHD è la desquamazione o la rottura degli zoccoli causata da interruzioni della crescita. Soprattutto le varietà americane di mucca da latte con EHD cronica spesso diventavano zoppi a causa di questi problemi agli zoccoli.
Sebbene la malattia presenti segni clinici così evidenti e porti alla morte di alcuni esemplari, la morbilità – ovvero la frequenza percentuale di capi malati all’interno di un allevamento- nei bovini non supera mai l’8%. Infatti nonostante sia possibile che le mucche e vitelli siano malati da diverse settimane, molti dei capi possono riprendersi. Solo che seppur in genere l'EHD non uccide i bovini come altri ruminanti e non stermina un allevamento, può influire negativamente sull'industria di produzione del latte e della carne e portare indirettamente l’esemplare colpito alla morte, dopo mesi dalla guarigione, a causa degli effetti indiretti come la perdita di peso e la zoppia.
A seguito di questi effetti così negativi per le aziende della carne e del latte, l’Europa già dal 2009 tramite EFSA – Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare – ha suggerito alcune azioni da intraprendere per limitare i danni della malattia e impedire che il virus si espanda al resto del continente. Fra queste c’è il blocco della movimentazione dei bovini dalle regioni in cui ne è stata segnalata la presenza, l’abbattimento dei capi negli allevamenti maggiormente colpiti (finora questa azione non è stata mai necessaria) e la sorveglianza delle mandrie nel lungo termine.
Prevenire una futura epidemia
Il primo caso rilevato di bovino colpito da questa malattia in Europa apparteneva ad un allevamento sardo. Da allora la Sardegna si è vista obbligata a chiudere le frontiere per i loro capi bestiame, per impedire che la malattia si diffondesse al resto delle regioni italiane e producesse danni biologici, economici ed ecologici peggiori. Si è infatti visto come le pecore possono anch’esse cadere vittima del virus, mentre le capre selvatiche sperimentalmente non hanno mai mostrato segni della malattia.
Gli allevatori siciliani ora temono proprio di finire come i loro colleghi sardi: di vedersi negata la possibilità di commerciare il loro bestiame e di vedersi bloccare la movimentazione degli animali all’interno e al di fuori dell’isola.
Il ministero della sanità italiano d’altronde ha già scritto una nota, indirizzata verso l’assessorato locale, atto a concordare con la regione un piano di monitoraggio utile nel contrastare la diffusione del virus. Questo ha già messo in agitazione tutti i principali allevatori, soprattutto quelli che lavorano presso i Nebrodi e le Madonie.
Il blocco della movimentazione provocato da un singolo caso infetto viene visto infatti come un sopruso, che metterebbe in ginocchia la fragile – seppur presente – economia casearia locale (per non parlare quella legata alla carne).
I malumori degli allevatori tra l’altro non mettono a rischio solo i rapporti fra dirigenti, nazionali e regionali, e le comunità locali, ma stanno già spingendo in molti, fra cittadini e politici, nel chiedere l’abbattimento di tutti gli animali selvatici che potrebbero passare la malattia alle mandrie, andando ad incancrenire ulteriormente il dialogo fra coloro che propongono politiche ambientali che auspicano la conservazione della natura e chi guarda ad essa come uno spazio da sfruttare o dominare.
«A mio avviso sarebbe importante prestare attenzione alla fauna selvatica, primo veicolo di contagio» dichiara Gabriella Regalbuto, responsabile provinciale del dipartimento agricoltura di Fratelli d’Italia, in una intervista che ha rilasciato al sito NebrodiNews. «Gli allevatori lo chiedono da anni: è un controsenso imporre piani di risanamento periodici ai nostri allevamenti, con costi importanti a carico delle aziende, e permettere al contempo alla fauna selvatica di proliferare indisturbata e distruggere aziende zootecniche. Daini, cinghiali, suini selvatici e inselvatichiti non sono una risorsa (economica) e il loro contenimento è un problema che va affrontato con urgenza; non ci si può voltare dall’altra parte.»
La visione della Regalbuto è un esempio preoccupante delle future polemiche che potrebbero scaturire da nuove dichiarazioni politiche contrarie al mantenimento della fauna selvatica nei parchi. Già sulle Madonie il caso della liberalizzazione della caccia ai daini, dentro il confine del Parco, sta provocando un confronto acceso fra esponenti politici, proprietari delle aziende e il mondo degli ambientalisti. Si spera che la diffusione della malattia all’interno dei capi di bestiame non porti anche in questo caso alla colpevolizzazione della fauna selvatica, che si ritrova come sempre vittima degli errori umani, ma che induca invece una serie riflessione da parte degli esponenti politici sulle strategie da adottare per impedire al virus di espandersi a macchia d’olio per la regione.
La migliore strategia sarebbe adottare un opera di monitoraggio intensivo di tutti gli allevamenti presenti in Sicilia ed affidarsi a tecnici, come veterinari, biologi e naturalisti, per impedire tra l’altro anche che l’EHD raggiunga la fauna selvatica, come avvenuto in Africa, dove buona parte dell’epidemia ha colpito le mandrie semi selvatiche che hanno infettato a loro volta altre specie.
Tra l’altro sappiamo già che i potenziali insetti portatori del virus, colpevoli di aver diffuso la malattia in Sardegna, potrebbero aver raggiunto le coste sarde grazie alle tempeste di sabbia, favorite dal cambiamento climatico. E sappiamo già che le condizioni favorevoli ad un’epidemia all’interno di un contesto zootecnico, sono le stesse che caratterizzano l’industria alimentare degli allevamenti intensivi: produzione massiva, grandi numeri di capi, restrizioni ambientali e scarsa igiene.
In breve, se la politica locale desidera realmente limitare la nascita di una nuova epidemia e salvaguardare le aziende zootecniche, non deve far altro che seguire le note del Ministero, optare per le stesse azioni svolte in Sardegna e affidarsi alla scienza, non agli effetti elettorali che potrebbero avere certe dichiarazioni su un’utenza già incattivita nei confronti del mondo selvatico.