Osservando i primati in natura si rimane spesso stupiti di fronte al modo con cui volteggiano fra le fronde degli alberi o rimangono sospesi con le punta delle dita. E non è un caso se gli scienziati che per primi studiarono il comportamento delle scimmie nella foresta lo paragonarono alle esibizioni dei giocolieri. Ma come hanno fatto i primati a evolvere questo particolare tipo di locomozione? E come si sono evolute quelle strutture anatomiche che permettono ai gibboni di dondolarsi fra i rami e che oggi consentono ai campioni di baseball a lanciare una palla o a roteare una mazza?
C'è lo spiega un recente studio, pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science da parte di un team di biologi americani, che è stato guidato dall'Università di Hanover, a Dartmouth, nel New Hampshire. Secondo questi scienziati, infatti, questa tipologia di movimenti è stata resa possibile grazie ad una serie di particolari adattamenti che hanno permesso agli antenati dei primati moderni di arrampicarsi sugli alberi più alti, senza correre il rischio di precipitare al suolo.
L'evoluzione delle spalle libere e di gomiti flessibili, rivolti verso l'esterno, hanno permesso ai primati per prima cosa di ottenere una certa sicurezza al momento della caduta, poiché consentiva agli animali di protendere le braccia e afferrare qualsiasi cosa – da una liana, a un ramo o al braccio teso di un compagno – e di attutire o fermare la caduta. La struttura anatomica di spalle e gomiti consentiva alle scimmie di avere un certo controllo del movimento mentre ci si spostava da un capo all'altro di un albero, andando a eseguire con precisione proprio quelle manovre che limitavano l'errore.
I ricercatori hanno così capito che sia le spalle che i gomiti possono essere "i paracadute" dei primati, venendo utilizzati anche nel caso in cui questi animali debbano raggiungere molto velocemente il suolo. Andando ad effettuare delle analisi con software statistici utilizzati di solito per le valutazioni delle prestazioni dei giocatori durante le partite, gli scienziati hanno infatti confrontato diversi video e fotogrammi di scimpanzé e piccole scimmie chiamate mangabe o cercocebi mori mentre si arrampicavano.
Il risultato è stato notevole: mentre le due specie scalavano gli alberi in modo simile, con le spalle e i gomiti per lo più piegati vicino al corpo, quando scendevano si muovevano in maniera diversa per via della loro differenza di peso e dei loro obiettivi. Mentre gli scimpanzé allungavano le braccia sopra la testa per aggrapparsi ai rami, in modo simile a come un umano scende da una scala lasciandosi guidare dalla gravità verso il basso, i mangabe si lanciavano proprio nel vuoto, utilizzando gli arti superiori per frenare la loro velocità di caduta. Ed in entrambi i casi le spalle e i gomiti sono risultati gli organi principali con cui queste specie riuscivano a controllare la loro discesa.
«Il nostro studio ritiene che la modalità con cui i primati scendono dagli alberi sia un fattore sottovalutato, ma incredibilmente importante, nelle divergenti differenze anatomiche evolutive tra le specie, che alla fine si sono manifestate anche negli esseri umani – ha detto Luke Fannin, giovane primo autore dello studio – La discesa rappresenta infatti una sfida fisica così significativa per questi animali, date le dimensioni delle scimmie e dei primi esseri umani, che la loro morfologia avrebbe risposto attraverso la selezione naturale a causa del rischio di cadute».
Senza questi organi, infatti, probabilmente i primati non sarebbero riusciti a conquistare le foreste né a sopravvivere così a lungo tra le fronde degli alberi. «Visto che le prime scimmie si sono evolute 20 milioni di anni fa in un tipo di foreste sparse dove era fondamentale salire sugli alberi per procurarsi il cibo, è normale che anche le grandi scimmie non possono permettersi di cadere, perché ciò potrebbe ucciderle o ferirle gravemente – ha chiarito Jeremy DeSilva, professore di antropologia a Dartmouth – La selezione naturale avrebbe così favorito quelle anatomie che hanno permesso a tutti i primati, al di là del loro peso, di scendere in sicurezza».
Ciò avrebbe anche consentito più tardi di sviluppare movimenti articolari particolari, come il dondolamento dei gibboni, il salto in lungo negli esseri umani e in alcune particolari scimmie che si lanciano da un albero ad un altro, così come anche il lancio di oggetti in molti sport e non solo.
Per capire l'importanza di queste due strutture all'interno della nostra evoluzione, affermano i ricercatori, basta considerare l'impatto che hanno avuto con l'introduzione delle lance o degli archi. Senza delle spalle libere e dei gomiti efficienti, non avremmo potuto infatti compiere i movimenti necessari per rifornirci di cibo o per difenderci. Inoltre, se si osservano gli altri mammiferi, noteremmo che siamo gli unici, insieme agli altri primati e ad un unica eccezione, i koala, ad esserci dotati di queste particolari strutture.
Questo è dovuto al fatto che all'interno della nostra classe solo noi ci siamo adattati per vivere strettamente fra le fronde degli alberi, spiegano i ricercatori. Gli altri mammiferi arrampicatori, come gli orsi o i leopardi, per quanto capaci di arrampicarsi, non sono mai stati dei frequenti appassionati di arrampicata. Ciò li ha portati a sviluppare adattamenti più legati alla terra ferma e a non evolvere quelle tecniche di discesa che gli consentono di atterrare in maniera così sicura.