I cani vivono a stretto contatto con l'essere umano da millenni e, come noi, nell'interazione con la fauna selvatica possono causare diversi problemi. A sottolineare questo aspetto è il Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise che in un lungo post analizza le conclusioni dello studio pubblicato sulla rivista scientifica Biodiversity and Conservation.
Mediare le esigenze dei selvatici, dei cani e quelle delle persone che vogliono vivere la natura con i propri compagni di vita non è semplice. Tuttavia questo non deve significare criminalizzare una specie che condivide con la nostra un "viaggio" che dura da circa 30 mila anni. Persone e cani sono accumunati da un lungo percorso co-evolutivo che ha cambiato noi, e soprattutto loro nel modo in cui abbiamo influito anche sulla loro libertà. Lo spiega a Kodami Luca Spennacchio, istruttore cinofilo e membro del comitato scientifico del magazine: «Oggi che i cani sono in gran numero nelle nostre città sembra naturale far vivere l'animale a un metro e mezzo di guinzaglio, mentre diventa straordinario liberarlo: è un paradosso».
Lo studio sulle predazioni dei cani sui selvatici
Il team di ricercatori ha osservato come l'impatto del canis lupus familiaris generi una serie di problematiche a danno dei selvatici attraverso la predazione, la trasmissione di agenti patogeni e l'ibridazione con i lupi e altri canidi selvatici.
Lo studio si è avvalso della citizen science, cioè della partecipazione attiva dei cittadini nella ricerca scientifica. Nello specifico, sono stati usati i dati ottenuti tramite sondaggi online sui social network e immagini di animali selvatici uccisi o feriti dai cani dal 2002 al 2022. Ma ulteriori dati sono stati raccolti anche da articoli di giornale. A questi si aggiungono poi i dati raccolti dagli scienziati che hanno fornito un report sulla dieta dei cani domestici attraverso l'analisi degli escrementi raccolti nelle campagne dell'Italia centrale nel periodo 1998-1999, per i quali è stata valutata la selezione delle prede confrontando il consumo con la disponibilità. L'indagine di citizen science ha fornito 589 registrazioni: i cani hanno attaccato e ucciso 95 specie, soprattutto mammiferi e uccelli, comprese le specie di piccola selvaggina.
Tra le specie di interesse ai fini della conservazione, i cani hanno attaccato o ucciso puzzola (Mustela putorius) e istrice (Hystrix cristata), entrambe incluse nell'Allegato IV della Direttiva Habitat, e gli endemismi italiani lepre italica (Lepus corsicanus) e passero italiano (Passer italiae).
«Oltre il 90% degli attacchi sono stati causati da cani senza guinzaglio in presenza del proprietario in aree urbane e periurbane – si legge nello studio – Le 148 deiezioni canine analizzate contenevano 30 specie di prede, soprattutto mammiferi, che costituivano la base della dieta dei cani, seguiti da altro materiale, probabilmente cibo per animali domestici. I resti di pecore domestiche erano frequenti nella dieta, così come le lepri (Lepus europaeus) e i caprioli (Capreolus capreolus) tra i mammiferi selvatici».
Ma tra gli animali inclusi nello studio che sono stati feriti da cani ce ne sono alcune ad alto rischio di estinzione, tra le quali figura anche l’orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus), con un solo caso registrato: quello di Morena. L'orsa era stata svezzata e cresciuta per più di sei mesi dai tecnici del Parco dopo essere rimasta senza la madre. Nel 2016 era stata rilasciata in natura per poi essere ritrovata morta vicino a Scanno pochi mesi dopo.
Come si legge nel Rapporto Orso del Pnalm, il decesso della giovane orsa è stato attribuito a una paradontite, tuttavia sul suo corpo sono state trovate tracce di diversi traumi provocati da un altro orso o da un cane di grandi dimensioni.
«La mitigazione dell'impatto dei carnivori domestici sulla fauna selvatica richiede una sensibilizzazione volta a promuovere una proprietà responsabile degli animali domestici e per evitare rigorosamente il comportamento dei cani in libertà, soprattutto dove è più probabile l'incontro con la fauna selvatica», hanno dichiarato gli autori dello studio.
Una posizione che trova d'accordo il Parco d'Abruzzo, l'ente che da sempre si occupa della conservazione di alcune delle specie autoctone più rappresentative dell'Italia Centrale: «Questo non fa che confermare l’estrema importanza del rispetto delle regole attinenti alla gestione dei cani all’interno delle aree protette, in particolar modo quelle relative al contrasto al randagismo canino, la cui competenza è a carico alle Amministrazioni Comunali e delle Asl, ma anche l’accettazione da parte dei visitatori del Parco, accompagnati dai loro amici a quattro zampe, a rispettare fermamente i regolamenti vigenti, andando con il cane solo lungo i sentieri autorizzati e portandolo sempre con il guinzaglio».
L'esperto: «Cosa intendiamo quando parliamo di libertà dei cani?»
Secondo le stime dell'ultimo Rapporto Assalco Zoomark, quasi metà delle famiglie italiane vive con animali, e molti di questi sono cani, la cui popolazione raggiunge gli 8 milioni di individui.
Si tratta di numeri importanti che acquisiscono valore soprattutto in relazione all'impronta ecologica che complessivamente – persone e animali – lasciano sull'ecosistema. «È vero che gli animi domestici, soprattutto gatti e cani hanno un impatto sull'ambiente circostante, ed è ovvio che le aree protette debbano essere rispettate – continua Luca Spennacchio – Ma ricordiamo che i danni più importanti sono causati proprio dalla nostra specie, e che questi si riflettono nell'immediato proprio sugli animali che vivono più vicino a noi».
Proprio in ragione di tale larghissima diffusione, si sono rese necessarie delle regole che agevolassero la permanenza dei cani nella società dell'uomo, ma non l'espressione delle loro caratteristiche etologiche. «Oggi che i cani vivono in gran numero nelle nostre città crediamo che slegarli dal guinzaglio significhi liberarli, ma non è così. La libertà intesa come autonomia di movimento in passeggiata è ben diversa da quella che auspichiamo per noi, e questo già dice tutto», ricorda l'esperto.
L'uomo ha costruito un mondo a propria immagine, riducendo la Natura in spazi limitati, come le aree protette, e costringendo al proprio giogo gli altri animali. In questo contesto i cani si trovano in una posizione particolarmente complessa: come animali domestici la loro vita è strettamente legata all'uomo, tuttavia continuano ad avere esigenze specifiche che non possono essere soddisfatte. «È giusto tutelare il patrimonio naturalistico, ma ricordiamo anche che è sempre più difficile trovare posti dove i cani possano fare i cani – sottolinea Spennacchio – Questo a causa di diversi fattori che hanno a che vedere una società che non è pensata per essere vissuta da persone e cani insieme, ma che rinchiude i cani in precise aree. A questa fondamentale difficoltà strutturale aggiungiamo quelle relazionali di cani non seguiti nel modo giusto, frustrati da tantissime ore di solitudine e stress. Iniziamo a prendere coscienza di questi aspetti».
La responsabilità delle persone come specie e come singoli individui è quindi il vero tema da trattare, eppure rappresenta ancora un tabù. «Se vogliamo leggere la libertà del cane come liberazione dal guinzaglio, allora dobbiamo iniziare a metterci in gioco, e a capire che si tratta di un processo sfumato che si deve adattare al contesto e alle caratteristiche del cane e anche nostre. Tanto meno il cane è abituato a stare libero tanto più è complesso per lui e i suoi umani gestirla».
Per questo esistono norme pensate per la convivenza in città, che abbiamo imparato a dare per scontate, e quelle pensate per i contesti naturali, relativamente nuove. In entrambi i casi però si tratta di regole che per quanto forzate rispetto all'etologia dei cani, servono per vivere in sicurezza all'interno di una società non pensata per loro. «È un tema molto più complesso che va oltre il guinzaglio: si tratta di mettere in gioco noi come specie, per ripensare il concetto di libertà che abbiamo cucito addosso ai nostri compagni più fidati», conclude l'esperto.