L’Olanda, con un’industria zootecnica che conta oltre 100 milioni di bovini, suini e polli, è il paese esportatore di carne più grande dell’Unione Europea. Come sa bene il Governo, però, gli allevamenti intensivi di bestiame contribuiscono in maniera determinante alle emissioni di gas serra e azoto, rilasciate tramite liquami e letame. Emissioni che nel Paese sono diventate una vera emergenza.
È per questo che l'esecutivo olandese sta studiando un piano davvero radicale per cambiare rotta attraverso misure drastiche mai proposte prima in Europa: tra le principali, quella di ridurre del 30 per cento i capi di bestiame, imponendo anche tagli all’uso del suolo per l’industria della carne e la possibilità di esproprio dei terreni agli allevatori.
La crociata olandese per abbattere l’impatto climatico dell’allevamento prende le mosse da una sentenza del 2019 da parte del Consiglio di Stato che ha condannato il governo per i valori troppo alti di azoto nelle aree naturali vulnerabili. Un allarme al quale non è stata data la giusta rilevanza, ma che al contrario ne ha parecchia viste le conseguenze pesantissime che lo squilibrio del ciclo dell’azoto ha su salute, sicurezza alimentare, biodiversità e tenuta degli ecosistemi.
Il piano a seconda del mix di strumenti usati, secondo le stime porterebbero a una riduzione dei rilasci di ammoniaca dal 27 al 32% e a un taglio di gas serra pari a 5 Mt (tonnellate equivalenti) l’anno.
Stando ai dati del rapporto di Meat Atlas 2021 , curato da Friends of the Earth e la Heinrich Böll Stiftung, che fotografa l’industria globale della carne considerando diversi aspetti, a livello globale, le prime 20 multinazionali degli allevamenti al mondo, inquinano più di un’economia altamente industrializzata come quella della Germania. Esattamente 932mila tonnellate di CO2 contro 902mila. Numeri che non sono assolutamente sostenibili.
E pur consapevoli che il 90% delle emissioni provengono dalla filiera dei produttori di carne, tuttavia, spiega il rapporto, nessun Governo richiede ai produttori di carne di documentare le proprie emissioni in modo da consentire confronti all’interno del settore. Un buco nero, che pesa tantissimo sul clima globale.
Secondo ciò che riporta il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (lPCC), il foro scientifico formato nel 1988 dalle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente per studiare il riscaldamento globale, tutto il settore del cibo costituisce tra il 21 e il 37% delle emissioni globali di gas serra. Ma di questa percentuale, più della metà sono originate dagli allevamenti, che contribuiscono al riscaldamento globale in modo sproporzionato rispetto al resto del settore alimentare.
Ma poco importa sembra, visto che, tra il 2015 e il 2020, all’industria globale degli allevamenti che «alimenta la crisi climatica, la deforestazione, l’uso di pesticidi e la perdita di biodiversità» come scrivono gli autori del report, sono arrivati ben 404 miliardi di euro di finanziamenti.
Una cifra folle confrontata con i 365 miliardi in 7 anni per 27 Paesi destinata dall’Unione Europea alla sua politica agricola. Negli ultimi cinque anni, 200 banche, soprattutto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, hanno sovvenzionato il settore con prestiti per 150 miliardi di euro. Una cifra che fa sobbalzare visto l'evidente contrasto con le annunciate volontà di rendere la finanza sempre più sostenibile.