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18 Dicembre 2020
18:00

Libano: storia di un Pitbull

Una storia tra un Pitbull e una ragazza che getta luce sulla realtà dei canili, spesso affollati e gestiti male. E sulla costruzione di un rapporto di amicizia e fiducia che può diventare una grande opportunità sia per l’uomo che per il cane.

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Istruttrice cinofila
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Avevo iniziato da poco a fare l’educatrice cinofila ma ero certa che il mio passato di volontariato in canile mi avrebbe aiutata in questa circostanza. D’altronde era da lì che Libano arrivava: un canile come tanti del centro Italia, molto affollato e gestito in maniera discutibile. Uno di quei posti in cui un cane come lui è semplicemente una matricola, un codice ed essere un Pitbull, di certo non aiutava. Quella breve sequenza di numeri e lettere, del resto, per come ancora ci si approccia ai cani in tanti posti in cui sono stati relegati, non tiene alcun conto della storia pregressa di un individuo: deve semplicemente identificare un cane a cui si possono “fare delle cose”. E queste cose devono pure essere fatte in assoluta tranquillità e senza “fastidi”: dar da mangiare, pulire la gabbia, al massimo inoculare un vaccino se serve.

Ma Libano era un cagnone fiero, serio e trapelava dal suo sguardo profondo tutto il suo passato pesante: quegli occhi che spesso hanno i Pitbull e che rivelano quanto questi cani siano tanto possenti nell’aspetto fisico quanto fragili come cristalli dentro. E Libano era già stato etichettato come un cane “poco malleabile” perché si era permesso di mordere l’operatore che gli aveva tolto il pesante collare di ferro con cui era arrivato. Libano, così, era stato già destinato al corridoio dei sorvegliati speciali, quello con le gabbie in cemento e la feritoia in alto: un unico barlume di luce e aria raggiungibile solo saltando.

Una rete di aiuto lungo lo Stivale

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Il taglio delle orecchie è, purtroppo, una brutta pratica ancora troppo diffusa

Quando mi chiamarono, mostrandomi prima solo una sua foto, mi resi conto che ero l’ultima persona di una lunga serie di uomini e donne che avevano già incrociato il suo sguardo e avevano intravisto la serie di possibilità che si celava dietro il suo passato ingombrante. Una storia fatta di orecchie tagliate in modo rozzo e “artigianale”, una vita fatta di collari e catene: una storia di nulla. In canile non avrei incontrato solo i cani, ovviamente. C’era un’intera squadra di persone che poi ebbi la fortuna di conoscere e fra di loro, come se la mia storia fosse stata già scritta, una collega che sarebbe diventata col tempo un mio punto di riferimento oltre che un’amica speciale. Lei si era accorta di questo Pitbull e aveva insistito per vederlo fuori da quella gabbia di cemento, iniziando il lavoro che mi sono poi trovata a portare avanti con lui. Ci siamo scritte per mesi e continuiamo a farlo anche ora che vivo in Spagna, giocando con le parole e ricalcando le pieghe dei ricordi di quel periodo. Oggi sorrido ricordando questa storia di amicizia tra cani e umani e, guardando fuori dalla finestra di casa mia, penso a quanto tempo è passato, a come sono vivi alcuni ricordi e a quante volte il destino lega a doppio filo le vite di persone e cani. E una cosa è sempre stata certa: Libano mi è entrato da subito in maniera profonda nell’animo e senza chiedere il permesso.

Vedere le opportunità dove tutti avrebbero visto le difficoltà

La prima volta che mi relazionai con Libano fu tutt’altro che una passeggiata. Conservavo un certo timore quando mi scrutava a fondo, abbassando la linea della testa: ci volle un po’ prima che mi sentissi sicura di entrare in box e lui, nonostante il suo aspetto fisico, sentiva l’urgenza di fidarsi. Ma voleva essere certo di poterlo fare. Mi ripetevo dentro di me che non mi interessava affatto l’etichetta che gli avevano dato, che non volevo avere sovrastrutture mentali su quello che i colleghi mi avevano già raccontato. L’unica cosa che mi ripetevo come un mantra era che dovevo aspettare, pazientemente, un suo consenso, un suo segnale chiaro e che no, non dovevo avere fretta. Da lì in poi il nostro percorso insieme è stato tutt’altro che in discesa. Ma quel segnale, quel “via libera”, era arrivato e io mi sentivo una persona estremamente fortunata nell’avere quell’atto di fiducia. Libano non aveva mai avuto reali opportunità nella sua vita e averne data una a me, proprio a me, mi sembrava da parte sua un dono da preservare con cura. Quel segnale fu stupefacente e forte come era lui. Libano era abituato a fare degli enormi salti quando era chiuso nel box per arrivare alla feritoia che era l’unica fonte di luce e contatto al passaggio delle persone. Nonostante fosse stato poi trasferito in un altro spazio in cui aveva una vista a 360 gradi e in un posto verdissimo e silenzioso non aveva smesso di comportarsi così, col rischio ogni volta di schiantarsi a terra facendosi del male. Quel giorno, il suo messaggio per me fu semplicemente questo, accogliendomi: “Non ho bisogno di saltare perché tu ti accorga di me, so che ci sei e posso fidarmi”.

Quello che si dovrebbe fare e quello che non val la pena fare

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Il nostro incontro è durato molti mesi. È stato un pezzo di strada a cui hanno partecipato colleghi fidati che mi hanno supportato e io seppur giovane, una cosa l’avevo già imparata dai miei mentori: tanti occhi vedono molte più cose. Insieme a questo cane abbiamo cercato di recuperare e dare una svolta alla sua vita, facendo le esperienze più disparate: l’ho portato in auto, a spasso per boschi e in mezzo alla gente. Mi sono fidata al punto di farmi accompagnare al bar, sostando con lui in luoghi che prevedevano incontri con persone e cani. Una fredda mattina d’inverno abbiamo persino deciso che la sua pettorina nuova era un acquisto urgente ma che l’avrebbe scelta e provata lui stesso nel grande negozio per gli animali della città. Continuavo a non curarmi delle voci che ci ronzavano intorno perché a detta di molti la strada professionale che avevo intrapreso non era la più appropriata. Libano per me, semplicemente, non era una “strada professionale”. Ma questo non potevo dirlo: spesso nel nostro ambiente ci si ripete che “non puoi affezionarti ai cani con cui lavori”, che  “non si fa”. Oggi ringrazio però anche gli autori delle tante critiche che mi arrivavano alle orecchie perché posso vedere con grande chiarezza che aspettare i tempi di un cane e fidarsi non solo della ragione, mi abbia concesso di fare questo mestiere mettendo in campo anche la giusta dose di cuore. Quando esci da una scuola di formazione ti viene insegnata tutta la correttezza possibile per approcciarti ai cani ma nessuno ti insegna a guardare oltre, a percepire le emozioni di quell’individuo, ad aprire fra te e quel cane un dialogo. Quelle cose non puoi impararle sui libri, devi avere la possibilità di metterti in ascolto e incontrare qualcuno come Libano.

E una cosa era ed è ancora certa per me: Libano ha allargato il mio cuore di una paio di taglie abbondanti almeno. Nonostante gli inciampi siano stati tanti, per lui come per me, in questa piccola grande storia ci siamo dati affetto e supporto reciproco: costruendo insieme il nostro percorso. E di una cosa sono assolutamente certa: la sua esistenza ha avuto la possibilità di percorrere sentieri inesplorati, conoscere persone e cani, guardare avanti nonostante l’ingombro degli eventi. Abbiamo camminato insieme per un po’ e poi è stato adottato. Sono certa che se tornassi indietro, rifarei tutto con lui. Ed è stato grazie a Libano che ho capito che collaborare, essere una squadra, è una ricchezza di cui nessuno dovrebbe fare a meno quando entra in contatto con i cani.

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