Non tutti sanno che una delle maggiori cause di entrata in canile è data dalle rinunce di proprietà per i più disparati motivi. Non tutti sanno che molto spesso non è facile trovare una nuova adozione per un cane, specie se già adulto, specie se non di razza, specie se di colore scuro. Purtroppo vi è il concreto rischio che possano passare anni interi prima di trovare una nuova adozione. E che cani, entrati giovani, possano uscirne quando sono ormai anziani e quando, nonostante tutto, la vita non potrà mai restituire loro tutto quello che hanno perso e che non riavranno mai più.
Pensateci prima di adottare un cane. È un vostro diritto, ma nessuno ve lo impone. Mentre portarlo in canile e privarlo di altre possibilità sarà per lui una imposizione, spesso causata da ignoranza e superficialità nella scelta.
Spesso chi lavora nei canili si sente come un carceriere e, nonostante ne percepisca tutta l’ingiustizia, non può far altro che comportarsi come tale. E, vi garantisco, fa male… molto male!
Per questo abbiamo pensato che, per parlare a chi abbandona un cane, potrebbe essere meglio usare le parole che forse lui stesso userebbe. Nella sua ingenuità, nella sua infinita buonafede.
Ciao A******,
sono Black, il tuo vecchio cane. Non so se ti ricordi di me, sono ormai passati tanti anni… 2, 5, 6, forse 10, non so con precisione. Sai per me i giorni sono stati tutti uguali per molto tempo e forse puoi capirmi se ti dico che ho perso il conto.
Ti scrivo perché oggi sono morto, ma non ti rattristare per me perché non ero da solo. Non ero più in quel freddo box dove mi hai lasciato. Ah, no, tu non l’hai neanche visto quel box, perché quel giorno non mi ci hai accompagnato. Ci siamo fermati lì in quell’ufficio, ho sentito la tua voce per l’ultima volta, hai firmato dei fogli e poi te ne sei andato. Non ti sei neanche girato e forse non ti sei accorto che io non c’ero. Chissà cosa avrai pensato… sarai stato deluso di me. Eppure, te lo giuro, io ci ho provato a venire con te. Ci ho provato in tutti i modi, ma quella persona non mi lasciava andare. Mi tratteneva dal guinzaglio e, quando ho preso ad abbaiare, mi ha portato via e mi ha rinchiuso nel box. Forse per questo non mi hai sentito mentre ti chiamavo. Ma ti giuro io ci ho provato per giorni a chiamarti.
«Forse mi sta cercando – pensavo – forse è qui vicino e mi può sentire. Sarà preoccupato di non vedermi, forse penserà che mi sono perso e non che l’ho abbandonato». E allora ho urlato. Con tutte le mie forze. Ho urlato per giorni, ogni volta che qualcuno passava, finché non ce l’ho fatta più, finché non sono crollato. Ero stanco e non avevo mangiato. Ma come potevo pensare a mangiare sapendo che forse eri lì fuori a cercarmi?
Poi alla fine la fame è arrivata. Una fame strana, fame di sopravvivenza: quella che ti spinge a vivere lo stesso, a cercare di adattarti. È quella fame che ti viene da dentro, anche quando la testa non vuole. Ma siamo programmati per sopravvivere… e sopravviviamo. E poi avevo quell’idea in testa, che forse mi stavi cercando, che potevi aver bisogno di me. E questo già era una ragione per continuare a sopravvivere.
Non mi hanno trattato male lì dentro. Debbo essere sincero. E a qualcuno mi sono anche affezionato. Certo niente in confronto alla vita con te, al sentirmi parte di una famiglia, ai salti che facevo quando ti vedevo tornare, al mio divano, alle passeggiate. Eravamo i re del quartiere noi, una squadra formidabile. Chissà come avrai fatto senza di me. Quante palline avrai perso senza nessuno a cercarle e riportartele. E quei cani che ci abbaiavano contro quando passavamo. Spero che te la sei cavata anche senza il mio aiuto. E quei rumori fuori dalla porta di casa. Finché c’ero io ho sempre lanciato l’allarme. Ti svegliavo, ti avvisavo, li tenevo lontani i malintenzionati. E mi dispiace, ti sarai forse sentito in pericolo senza di me. Ma ti giuro, io non ti ho tradito e sarei certo venuto con te se non mi avessero rapito.
E ancora oggi mi domando il perché. Che senso ha prendere un cane come me, un cane giovane e chiuderlo nel box. Tenerlo per anni a fare avanti e indietro in quelle quattro mura. Ma eravamo in tanti lì dentro e allora, pensavo, che forse un senso ce l’ha. Che forse è questa la vita di noi cani e che forse dobbiamo farcene una ragione.
Non è stata bella, sai, la mia vita. I giorni tutti uguali, gli odori tutti uguali e i rumori sempre gli stessi. La mattina cominciava sempre allo stesso modo. Sentivo da lontano il rumore metallico delle ciotole che battevano sul cemento del pavimento; poi sempre più vicino, finché arrivava il mio turno: la porta che si apriva velocemente e quella mano che in fretta la posava in terra per poi richiudere. E così finché il suono gradualmente si allontanava per poi sparire. Gli abbai che prima erano forti e poi, per un momento, si chetavano, ad uno ad uno. E anch’io mi facevo contagiare da quel chiasso; in quell’abbaio monotono, ripetitivo, protratto e prolungato finché, come tutti, mi buttavo sulla mia ciotola. Uno dei pochi momenti in cui quella totale immobilità, da cui ero circondato, sembrava muoversi, cambiar di prospettiva.
L’altro momento era quando il mio box veniva aperto e allora potevo andare dall’altra parte delle sbarre. C’era un poco di erba lì fuori, mista a fango e a quei solchi scavati dal continuo, ripetuto passaggio di tutti noi. Sempre sulle medesime traiettorie, giorno dopo giorno, chissà da quanto tempo. Li vedevo gli altri cani passare davanti alle mie sbarre: chi veloce come un lampo, chi lentamente e soffermandosi, vuoi per studiare approfonditamente qualche traccia, vuoi per l’età o per gli acciacchi. A volte qualcuno si presentava davanti alle mie sbarre. Chi per minacciarmi chi, con un rapido colpo di coda, per dirmi «ciao, ci sono anche oggi». E anche io per anni ho fatto lo stesso, sempre su quegli stessi solchi, su quegli odori, su quelle prospettive sempre uguali a loro stesse. Su quella terra arida d’estate e molle e viscosa d’inverno, quando ti rimaneva attaccata e ti si seccava poi addosso. È una strana prospettiva, sai, quella dello “sgambamento”. Tu sei in un box più grande e vedi da fuori la tua prigione; vedi quel cemento, quei muri alti e lisci, rigati da unghie passate; vedi quel bancale e quella vecchia coperta lisa, che anche quando è appena cambiata porta addosso i suoi vecchi odori; odori di vecchio e di stantio, oppure di altri cani, di storie che non sai e che ti lasciano lì a pensare. È strana la prospettiva dello “sgambamento”. Sei lì in una prigione più grande e vedi da fuori la tua prigione. Ma non sei libero neanche di tornarvi, perché le sbarre si chiudono e tu resti là fuori, finché qualcuno non ti consente di rientrare.
Ma non era sempre così. Ogni tanto, sai, qualcuno entrava nel box. Era gentile, mi accarezzava e mi chiamava per nome. «Andiamo Black» mi diceva e insieme facevamo una passeggiata. «Sa il mio nome», pensavo, e quel suono mi riportava a te, ai momenti belli vissuti assieme e al ricordo della vita passata. Black… un suono veloce, che di rado sentivo. Forse l’unica cosa che non è cambiata. L’unico legame con la mia identità. L’unica àncora che mi ha fatto continuare a pensare che io sono proprio io e che non è stata un sogno la mia vita precedente. Che forse tu sei veramente là fuori e che forse potrò rivederti. Che magari mi stai ancora cercando e forse potrò spiegarti che no, non ti ho tradito; non ti ho abbandonato. Le prime volte ho provato a correre lì in quello spiazzo, dove ho visto per l’ultima volta la nostra auto parcheggiata. L’ho cercata e cercata ancora, con gli occhi, col naso; ma quell’odore, sempre più flebile, alla fine poi è sparito e così anche la mia speranza.
Perché sì, te lo devo confessare, dopo un po’ ho smesso di pensare che l’avrei più rivista. E ho cominciato in quella passeggiata a pensare di più a me stesso. A godermi quei rari momenti fuori dal mio box e la compagnia di quella persona gentile. Quella persona che sapeva il mio nome e che non mi passava davanti indifferente. Spero che mi capirai e che non penserai che sono stato egoista, che ti ho tradito. Ma sai, lì dentro è difficile non impazzire. E quei brevi attimi di gentilezza sono l’unica cosa che ti fa pensare che la vita non è fatta solo di alti muri, di sbarre che separano la piccola prigione del box da una prigione un po’ più grande. Che ti fa pensare che il mondo non finisce lì. Che c’è forse un mondo dove si può correre e accelerare. Dove la strada non finisce dopo pochi metri interrotta da un muro. Un mondo dove il cielo e la terra si toccano perché sai, qui nel mio box, tra il cielo e la terra c’è sempre quel muro nel mezzo. O guardi l’uno o guardi l’altra, non si toccano mai.
Sono stato male qualche volta. Ma sono stato forte e sono guarito. Sai non è stato facile perché lì, dentro il box, sei solo anche quando stai male. E il cemento sembra allora più duro e quei muri ancora più alti. Ti metti lì, raggomitolato, e speri che passi. Certo qualche attenzione in più l’ho avuta in quei momenti. Una volta, era d’inverno, mi hanno anche fatto stare qualche giorno in una stanza più calda. Certo non c’era un divano, ma almeno non c’erano quegli spifferi fastidiosi che mi facevano tremare. Mi hanno messo lì da solo e da solo mi hanno lasciato alcuni giorni. Ogni tanto qualcuno si affacciava, mi diceva qualcosa e poi proseguiva oltre. Ma almeno ero al caldo. Una sensazione che quasi avevo dimenticato.
Non so quanto tempo è passato, 2 anni, 5, 6, o forse 10. So che a un certo punto i suoni e gli odori ho cominciato a percepirli sempre più distanti, sempre più ovattati. Anche i miei movimenti han cominciato a rallentare e quelle distanze, che prima mi sembravano sempre troppo brevi, hanno cominciato ad allungarsi. Quegli spazi, che prima percorrevo, ho cominciato ad accontentarmi di osservarli. Ma una cosa ho percepito distintamente da chi passava davanti al mio box. Anche il mio nome stava cambiando. Se prima era un veloce Black, magari ripetuto, per richiamare la mia attenzione, ora sembrava quasi che non si rivolgessero più direttamente a me, ma ne parlassero tra di loro. E sempre più spesso le loro frasi si concludevano con quelle parole: “vecchietto”, “malato”, “adozione del cuore”.
Finché tutto un giorno è cambiato. Pensavo di uscire per la solita breve passeggiata e invece quelle persone, che da non molto avevo conosciuto, mi hanno fatto salire sulla loro macchina. Mi hanno portato nella loro casa e lì c’era un divano che mi aspettava. Come in un sogno quella vita che avevo ormai quasi dimenticato è ritornata proprio come me la ricordavo. La sveglia assieme, le passeggiate, il sole che la sera spariva all’orizzonte e non dietro un muro che separava il cielo dalla terra. Me li ricordo tutti quei giorni perché sempre accadeva qualcosa di diverso. Ho visto più cose in quei pochi mesi che in tutti gli anni passati nel box. Certo avrei voluto saltare, correre, raggiungere quell’orizzonte che finalmente sapevo che esisteva, ma pazienza, mi bastava osservarlo e contemplarlo da lontano. Quei dolori non me lo consentivano, ma le ossa fan meno male quando c’è sotto un divano anziché il cemento e una vecchia coperta.
Spero che non ti offenderai, ma sono grato a queste persone. Seppur per poco mi han ridato la vita che, non ho capito mai perché, mi è stata rubata. Spero che oggi, leggendo questa mia lettera, potrai capire che non ti ho mai dimenticato, che ti ho cercato, che ho pianto, che ti ho aspettato. Non ti volevo lasciare e, spero lo capirai, non ti ho mai abbandonato.
Spero che non ti rattristerai leggendo la mia storia. Sappi che, seppur per pochi mesi, sono stato sereno. Sono morto nel calore di una nuova famiglia che mi è stata accanto fino all’ultimo momento. C’è chi questa fortuna non l’ha avuta e l’ultimo dei suoi giorni l’ha passato da solo nel box.
Certo non è bello pensare che il fiore dei miei anni è sfiorito tra quattro mura, che l’affetto, la condivisione, la complicità son rimasti impigliati tra quelle sbarre. Non è bello pensare che tutti quei passi, che mi sarebbero bastati a fare il giro del mondo, hanno sempre calpestato sé stessi dentro un piccolo rettangolo in cemento.
Ma che vuoi farci, la vita è a volte ingiusta. Può a volte capitare di essere rapito e strappato alla tua famiglia senza neanche capire il perché. Ti auguro che non ti capiti mai e voglio che tu sappia che non ti ho mai dimenticato.
Con affetto
Il tuo Black