Hanno un ruolo chiave nel 60 per cento delle estinzioni di piante e animali e sono una grave minaccia globale, sottovalutata e spesso non riconosciuta, per natura, economie, sicurezza alimentare e salute umana. È questo il giudizio sulle specie invasive riportato dall’Assessment report on invasive alien species and their control, approvato il 2 settembre a Bonn dai rappresentanti dei 143 Stati membri dell’Ipbes, l'Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services, l'organizzazione intergovernativa costituita per incrementare il confronto tra scienza e politica sulle questioni inerenti la biodiversità e i servizi ecosistemici
Le specie invasive sono quelle piante o animali, introdotte deliberatamente o meno dalle attività umane, che si insediano in un nuovo ambiente con effetti deleteri causati dalla competizione con la flora e fauna selvatica autoctona, e che talvolta comportano il danneggiamento delle infrastrutture, fino alla minaccia per la salute e i mezzi di sussistenza dell'uomo.
Dalla valutazione quadriennale dell'impatto globale di circa 3.500 di queste specie realizzata da un team di 86 ricercatori provenienti da 49 paesi sono emersi diversi dati importanti. Intanto che «non tutte le specie esotiche sono o si trasformano in invasive: lo sono e comportano gravi rischi per la natura e per le persone, circa il 6% delle piante, il 22% degli invertebrati; 14% dei vertebrati e l’11% dei microbi». Parlando di costi, poi, la loro diffusione fa danni per almeno 423 miliardi di dollari l'anno, 392 miliardi di euro, danni che sono quadruplicati ogni decennio dal 1970 anche a causa della crisi climatica che ne favorisce ulteriormente la loro espansione.
Un problema, quindi, che vista la situazione «è destinato a peggiorare notevolmente», come ha spiegato l'ecologa Helen Roy, co-presidente dell'Ipbes: «Le specie esotiche invasive sono uno dei 5 più importanti fattori diretti della perdita di biodiversità, insieme ai cambiamenti nell’uso del territorio e del mare, allo sfruttamento diretto delle specie, ai cambiamenti climatici e all’inquinamento».
L’Ipbes ha il compito di fornire ai Governi le migliori opzioni politiche per affrontare le sfide delle invasioni biologiche e il rapporto serve proprio a fornire un quadro dettagliato del problema e indicare le politiche necessarie ad arginarlo. Di sicuro, sebbene si tratti di un fenomeno con un impatto spaventoso, se davvero si impiegassero le risorse adatte sarebbe possibile tenerlo sotto controllo. Un esempio per tutti, è quello del tanto vituperato granchio blu: avvistato per la prima volta nel 1948 nel Mediterraneo, nessuno si è interessato a lui per 60 anni e questa superficialità ha portato alla situazione attuale. I Governi, si legge nel report, devono capire che bisogna investire nella prevenzione, come si fa sulla salute, esattamente perché è anche un problema di salute.
Il messaggio conclusivo è quindi che è molto più conveniente prevenire l'introduzione di specie invasive, adottando misure di biosicurezza, controlli alle frontiere e analisi del rischio di specie non autoctone introdotte intenzionalmente, piuttosto che rimediare quando è troppo tardi. Cosa che succede spesso visto che, come rivelato dallo studio Onu, l'84% dei paesi non dispone ancora di leggi o regolamenti nazionali specifici e tra i pochi che li hanno la Nuova Zelanda è l'unica a mettere in atto politiche ambiziose in materia, con l'obiettivo di sradicare tutte le specie invasive dalle sue isole entro la metà del secolo.