Tra gli animali più riconoscibili che abbiano mai camminato sul pianeta, i sauropodi hanno da sempre catturato l'attenzione del pubblico per la loro grande mole e maestosità. C'è però un'altra caratteristica che spesso viene affermata dagli studi e che invece non tutti conoscono.
Questi grandi dinosauri – e fra tutti le specie inserite all'interno della famiglia dei diplodochi – possiedono infatti una lunga coda, il più delle volte con una punta estremamente sottile, che per secoli ha affascinato i paleontologi, provocandogli più di qualche dubbio.
La coda in questi animali può infatti raggiungere anche più di 13 metri di lunghezza e avendo una morfologia peculiare, è stato difficile per gli esperti teorizzare quale potesse essere il suo uso o le condizioni favorevoli al suo sviluppo.
Dopo decenni di dibattiti e scardinata ormai l'idea che andava in voga nel periodo vittoriano, che asseriva che le code potessero essere utilizzate come punti di appoggio in condizioni paludosi o anfibie, un nuovo modello tutto italiano che recentemente è stato presentato dal Politecnico di Milano, in collaborazione con il Dipartimento di Geologia dell’Università NOVA di Lisbona, ha tentato di testare la teoria oggi più diffusa, che vuole le code a frusta come strumento di difesa nei confronti dei predatori.
Una frusta non velocissima
Nello studio uscito su Nature, si legge che l'obiettivo principale dell'indagine condotta principalmente da Simone Conti era l'analisi «del movimento di un modello 3D di una coda a flagello, utilizzando una simulazione multicorpo e quantificando le capacità di carico dei tessuti molli associati».
Per fare ciò, gli scienziati hanno dovuto modellare ed animare – osso per osso – la coda di un grosso sauropode appartenente della famiglia Diplodocidae e la scelta è ricaduta su cinque esemplari di Apatosaurus. Uno dei più grossi e rinomati dinosauri mai esistiti e di cui si è creduto per anni che potesse muovere la coda a velocità supersoniche, ben superiori a 340 metri al secondo, capace di creare un piccolo “boom sonico” ed essere utilizzato come strumento di difesa.
Purtroppo però il modello di Conti ha portato a sfatare questo mito, confermando che la coda di Apatosaurus potesse essere comunque utilizzata come arma di difesa e di offesa, ma non potesse raggiungere tali notevoli velocità ed essere impiegata con lo scopo di assordare un predatore. Nessuna similitudine con la frusta di Indiana Jones, in breve.
«Una struttura così allungata e slanciata – si legge nell'articolo – consentirebbe di raggiungere velocità di punta dell'ordine di 30 m/s, ovvero 100 km/h, di gran lunga inferiori alla velocità del suono, per effetto combinato dell'attrito della muscolatura e delle articolazioni, oltre che della resistenza aerodinamica».
Il modello digitale segue la scala reale: è lungo infatti poco oltre i 12 metri, ha un peso di 1.446 kg e presenta 82 le vertebre. Dunque gli esiti non risultano generici ma approfonditi.
a differenza di quanto creduto finora, quindi,, sembra che il movimento della coda dei diplodochi non riuscisse a oltrepassare i 33 metri al secondo, risultando perciò dieci
volte meno rapida della velocità del suono e molto più lenta per generare un boom sonico capace di stordire gli animali.
Inoltre il modello prodotto dal Politecnico di Milano permette di simulare i livelli di stress meccanico che la coda è capace di sopportare. Anche in questo caso, le notizie che fuoriescono dai dati contrastano con le vecchie teorie. Le vertebre di Apatosaurus sembrano essere "fragili", ovvero incapaci di sopportare la velocità di 340 metri al secondo necessaria a provocare lo schioppo. Le ossa si sarebbero infatti spezzate già a velocità inferiori a quella del muro del suono.
Per quanto lenta, gli autori però non escludono che la coda potesse essere usata comunque per dare dei colpi – venendo usata più come una verga – nelle competizioni fra i maschi o contro i predatori. Anche perché alla fine secondo questo modello decade anche l'altra teoria, che voleva la coda venire impiegata dagli animali come una sorta di scaccia mosche.