Il consumo di pesce negli ultimi anni è arrivato alle stelle, forse non c’è bisogno di citare il ruolo delle mode alimentari, come quella del sushi, e di come ha influenzato le produzioni. Ma chi paga, come sempre, sono gli animali e l’ambiente.
Stipati in vasche sovraffollate, medicati per combattere malattie dovute al sovraffollamento stesso e nutriti oltre la necessità per raggiungere dimensioni commercialmente interessanti, i pesci sono sfruttati lontano dagli occhi di tutti per soddisfare il consumatore ignaro, o indifferente.
Una domanda in crescita
La State of World Fisheries and Acquaculture (SOFIA) riporta che, nel 2020, 178 milioni di tonnellate di animali acquatici sono stati “prodotti” per il consumo umano. Solo in quest’ultimo anno la produzione è stata del 30% più alta della media degli anni precedenti. Negli anni ’60 il consumo pro capite annuo di pesce era di circa 10 kg; nel 2020 abbiamo raggiunto i 21 kg, di cui circa 9 di pescato e 12 da acquacoltura. La stessa SOFIA stima che il consumo, e quindi la produzione, non siano destinate a diminuire né ad arrestarsi, bensì a crescere.
Ma è tutto ciò sostenibile, sia in termini ambientali che in termini di benessere animale? La stessa FAO (Food and Agricolture Organization of the United Nations) ritiene che le risorse di pesca siano gravemente sotto pressione, ma allo stesso tempo riporta dati “incoraggianti” in quanto la pesca e la produzione di pesce sostenibili sono in crescita.
Considerando però la crescente domanda, come dichiarato dalle Organizzazioni stesse, la realtà dei fatti non lascia un grande margine di speranza. In questo scenario, poi, è in espansione sia lo sfruttamento delle risorse acquatiche naturali, tramite la pesca, ma anche di pesci provenienti da allevamenti.
L’allevamento di animali e vegetali di origine acquatica è chiamato “acquacultura” e comprende quindi pesci, molluschi, crostacei e alghe. Nello specifico l’allevamento di pesci è definito “piscicoltura”.
La piscicoltura può essere di due tipi:
- Estensiva; con grandi spazi e basata sull’utilizzo di risorse alimentari naturali. Questo tipo di allevamento è però poco frequente.
- Intensiva; nella quale, come per gli animali terrestri, l’intero il ciclo produttivo dipende completamente dall’intervento umano. La numerosità dei pesci allevati è estremamente densa in volumi ridotti. Per questo genere di piscicoltura vengono utilizzate vasche in vetroresina o cemento in caso di allevamento a terra, oppure grosse gabbie in caso di allevamento in mare. Le specie vengono alimentate in modo artificiale, solitamente tramite mangimi formulati.
La questione ambientale legata agli allevamenti intensivi
I danni ambientali legati all’allevamento intensivo di pesci si presentano sotto svariate forme. Tra questi circa 43 milioni di tonnellate di gas serra che sono stimati essere emessi ogni anno a causa della piscicoltura intensiva; è ingente anche il consumo di acqua necessariamente utilizzata durante tutta la filiera.
Si parla anche di tonnellate di rifiuti e i liquami derivanti dalla produzione e scaricati in mare e nei fiumi, che generano nelle acque un eccessivo accrescimento di organismi vegetali, come microalghe. Questo fenomeno è conosciuto come eutrofizzazione delle acque ed avviene per effetto di dosi elevate di sostanze nutritive di origine antropica come azoto, fosforo o zolfo e che genera il conseguente degrado dell’ambiente che diventa asfittico per le creature che naturalmente lo popolano, generandone quindi la morte.
I rifiuti contengono inoltre disinfettanti, altri prodotti chimici e metalli pesanti utilizzati nei diversi stadi della produzione che inquinano direttamente le acque.
Tra gli scarti prodotti dall’allevamento ittico ci sono inoltre, ogni anno, più di 500 mila tonnellate di escrementi. Questa esorbitante quantità è dovuta sia al numero di animali allevati ma anche alla qualità dell’alimento utilizzato per fomentare la crescita degli animali. La quantità di fibre nei mangimi, dovuta alla presenza di vegetali, è passata dal 10% al 70% del volume del mangime in trent’anni.
Negli escrementi si concentrano inoltre i residui dei medicinali che vengono somministrati ai pesci. Quando gli allevamenti sono nelle reti in mare aperto, i farmaci, che sono sparsi nell’acqua, si diffondono anche direttamente al di fuori dei confini degli allevamenti.
Grandi sprechi di risorse sono inoltre caratteristici in questo tipo di produzione. Circa un terzo dello stesso pesce d’allevamento diventa nutrimento per altri pesci considerati più pregiati. Per un chilo di pesce d’allevamento si necessita infatti di almeno 2 chili di mangime a base di pesce, una cui parte deriva anche dalla pesca stessa. Ciò richiede, quindi, grandi quantità di energia, risorse ed emissioni, oltre allo spreco stesso di pesci pescati destinati ad essere mangime per altri pesci d’allevamento.
Sono quindi diversi i punti deboli di questo tipo di produzione, soprattutto per quanto riguarda Paesi sottoposti a minori controlli che, casualità, sono anche i maggiori produttori ed esportatori internazionali, come Cina, Vietnam, India, Cile e Norvegia.
Il problema relativo al benessere animale
Come per tutti gli allevamenti intensivi, il benessere degli animali è anche qui ampiamente messo in discussione; potremmo anzi dire essere totalmente assente. Una recente inchiesta condotta da Essere Animali in sette allevamenti intensivi di pesci in Spagna mette chiaramente in evidenza le condizioni di vita degli animali e la grande sofferenza che ne consegue.
Le condizioni di vita dei pesci da allevamento
I pesci sono essere senzienti, ed è riconosciuto (anche per i più scettici) che sperimentano dolore, sofferenza e paura, come anche emozioni positive. Le vasche in cui vivono, nelle quali si trovano costretti a girare in un moto incostante senza meta e senza fine, sono ristrette e lontane anni luce dall’infinità spaziale del mare. Questa condizione di cattività, già per sé è causa di profondo stress per gli animali.
L’alta densità numerica cui gli animali sono costretti genera inoltre episodi di aggressività e competizione, espressi soprattutto durante il momento dell’alimentazione; questi portano spesso a ferite dolorose.
Come per le galline allevate in batteria o per i polli broiler da carne, costretti a vivere in ambienti ristretti e sovraffollati, inevitabilmente insalubri, la probabilità di trasmissione di malattie infettive e parassitarie tra gli animali è elevatissima, ed è per questo che gli animali sono medicati anche preventivamente.
La sorte dei pesci da allevamento
In questi allevamenti esiste un certo tasso di mortalità considerato “accettabile”, in tutte le sue fasi. Dal trasporto, all’allevamento stesso per distinte cause, all’asfissia causata dalla caduta fuori dalle vasche nei diversi stadi. Tra le fasi individuate come fortemente stressogene e dolorose ci sono il trasporto e lo stordimento.
Gli animali possono essere trasportati in diverse fasi della produzione: dagli allevamenti di produzione degli avannotti all’arrivo nell’allevamento di produzione; per lo spostamento attraverso distinte vasche di produzione; fino allo spostamento nelle zone di stordimento. La cattura, il trasporto e il riversamento degli animali tra le vasche avvengono con una violenza inaudita, che probabilmente solo le immagini potrebbero descrivere.
Lo stordimento degli animali avviene tramite scarica elettrica condotta dall’acqua stessa. Prima di raggiungere lo stato di incoscienza gli animali soffrono per la conduzione dell’elettricità attraverso il corpo e, inoltre, un numero non facilmente stimabile di animali non arriva ad essere stordito al primo tentativo o, anche mai. La fine di questi animali è quindi agonizzante.
Insomma, dopo una vita in cui è strappata loro la dignità, anche la morte sopraggiunge con dolore. Questi animali sono tra i più allevati sulla faccia della terra, ma effettivamente i meno protetti. Conosciamo tutti il detto “muto come un pesce” ma ci sentiamo di poter affermare che la sofferenza in silenzio non vuol dire minor sofferenza.