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9 Aprile 2021
16:10

La strage di aquile calve negli Stati Uniti a fine anni 90 ha trovato una spiegazione

È stato risolto il mistero della morte di una settantina di aquile calve negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta. La scoperta dello studio durato quasi 25 anni, è stato pubblicato sulla rivista Science.

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A distanza di 25 anni sembra sia stato risolto il mistero della morte di una settantina di aquile calve avvenuta in alcuni stati del sud-est degli Stati Uniti alla fine degli anni 90. A mettere nero su bianco le ragioni di quella moria è uno studio, pubblicato sula rivista Science, che ricostruisce i motivi finora sconosciuti dietro alla vicenda che diventò quasi un caso nazionale.

L'aquila di mare dalla testa bianca, denominata “calva” per una traduzione errata dall’inglese, è un rapace dall’aspetto unico. È marrone scuro con il tipico piumaggio bianco sul capo, ha un'apertura alare che arriva fino ai tre metri e, oltretutto, gli esemplari più grandi non sono i maschi, bensì le femmine. Si trova in tutto il Nord America e oltre ad essere l'uccello nazionale degli Stati Uniti, è un uccello importante per diverse culture dei nativi americani.

Ma torniamo allo studio. Era il 1998 quando i quotidiani americani iniziarono a parlare delle morti di decine di aquile calve, trovate in alcuni laghi artificiali nel sud-ovest dell’Arkansas. Nessuno era riuscito a darsi una spiegazione, pur avendo osservato una serie di comportamenti strani da parte delle aquile, tipo quello di una totale perdita di coordinazione nel volare che le faceva andare a sbattere contro gli alberi.

Alla fine morirono più di 70 aquile, ma ciò che fece allarmare ancora di più, fu il ritrovamento di carcasse anche di alcune folaghe, comuni uccelli acquatici, in altri laghi artificiali della Georgia e del North Carolina, alle quali erano state riscontrate le stesse lesioni al cervello osservate nelle aquile. Questo fece supporre agli scienziati che la responsabilità potesse essere attribuita a una qualche tossina sconosciuta che gli scienziati non erano in grado di identificare.

Nessuno riuscì a capire le vere motivazioni dietro a quelle morti, tanto da far cominciare una serie di studi che sono andati avanti per ben 25 anni e che appunto oggi sono arrivati a concludere che la morte degli animali sopraggiungeva a causa di una mielopatia vacuolare, una malattia che provoca lesioni nel cervello. La malattia dipende da una specie di batteri, cianobatteri, che sviluppa una particolare tossina in presenza di specifiche sostanze inquinanti.

Il legame tra la morte delle aquile e delle folaghe, come riscontrò uno degli scienziati che lavorava al caso, doveva essere in qualcosa che veniva mangiato dai volatili. Si scoprì che i laghi artificiali dove vivevano le folaghe erano infestati dalla hydrilla verticillata, una pianta acquatica sulle cui foglie erano presenti macchie provocate per l’appunto dai cianobatteri. Le folaghe, evidentemente si nutrivano di queste piante e, contagiandosi col batterio, si ammalavano. A questo punto, il fatto di non riuscire più a nuotare in maniera normale, le faceva diventate prede facili per le aquile, che dopo averle mangiate si ammalavano allo stesso modo.

Dal 2011 cominciarono diversi esperimenti per studiare il comportamento di questi batteri e, gli scienziati, riuscirono a capire che la tossina “colpevole” delle morti veniva prodotta dai cianobatteri sull’hydrilla nei laghi e non da quelli cresciuti in laboratorio. Scoperto che la molecola conteneva cinque atomi di bromo, si provò ad aggiungere l'elemento chimico ai cianobatteri cresciuti in laboratorio per vedere se si sarebbe originata la stessa tossina. E così successe. La tossina è stata chiamata aetokthonotoxin, “veleno che uccide l’aquila”.

Da dove arrivino gli atomi di bromo che permettono lo sviluppo della tossina, non si è ancora scoperto. Si ipotizza che possa provenire dall’industria chimica o dagli additivi per carburanti. L’unica cosa quasi certa, al momento, è che la sua origine abbia a che fare con lo scempio che l'essere umano sta compiendo sull'ecosistema.

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Simona Sirianni
Giornalista
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