Era il 24 novembre del 1974 quando il paleoantropologo Donald Johanson e il suo studente Tom Gray trovarono i resti di quello che sarebbe diventato l'australopiteco più famoso della storia, Lucy. Le sue ossa fossili furono trovate tra le aride pianure nei pressi del villaggio di Hadar, nella regione etiope di Afar. La scoperta del team, formato tra gli altri anche dai paleoantropologi francesi Yves Coppens e Maurice Taieb, ha avuto un enorme impatto mediatico e ha, in un certo senso, cambiato l'approccio dell'opinione pubblica nei confronti degli studi nel campo dell'evoluzione umana.
Il ritrovamento e la ricostruzione
L'eccezionalità del ritrovamento di Lucy, che in realtà si chiama ufficialmente AL288-1, risiede soprattutto nel numero insolitamente alto di frammenti conservati, pari a circa il 40% dell'intero scheletro dell'ominide, e sull'importanza che la scoperta ha comportato nella ricostruzione di alcune tappe fondamentali dell'evoluzione umana. Gli anni in cui è stata trovata Lucy, soprattutto il periodo tra il 1973 e il 1977, sono infatti noti come il periodo dell'oro per la paleoantropologia. Negli stessi giacimenti fossili della regione di Afar furono infatti portati alla luce migliaia di fossili di ominidi vissuti tra i 3 e 4 milioni di anni fa, che hanno permesso di ricostruire buona parte delle caratteristiche e dello stile di vita dell'Australopithecus afarensis, la specie a cui appartiene la femmina Lucy.
Il nome "Lucy" si ispira inoltre alla nota canzone dei Beatles del 1967, "Lucy In The Sky With Diamonds", che fu ripetutamente suonata e cantata a squarciagola durante i festeggiamenti al campo la sera stessa del ritrovamento. Da quel giorno ci vollero circa tre settimane di scavo per tirare fuori tutte le ossa fossili dell'Australopithecus. Ma già dalle prime ricostruzioni era chiara la portata della scoperta, che ha permesso fin da subito un'accurata ricostruzione in vita dell'ominide: Lucy era alta poco più di un metro (1,1 m) e pesava 29 kg. Il suo aspetto era molto simile a quello degli odierni scimpanzé, con un cranio e un cervello molto piccoli ma dotata di un bacino e di arti inferiori chiaramente più simili a quelli umani.
Uno passaggio chiave per la storia dell'evoluzione umana
Lucy, infatti, vissuta in Africa intorno ai 3,2 milioni di anni fa, poteva chiaramente camminare in posizione eretta. Anche se conservava molte parti del corpo ancora legati alla vita arboricola, le gambe erano molto lunghe e le braccia più corte, caratteristiche fisiche che iniziavano ad allontanarsi da quelle degli altri primati e che sono alla base del bipedismo. La sua cassa toracica e la mandibola erano invece molto simili a quelle di gorilla e scimpanzé, il che fa presupporre una dieta prevalentemente a base vegetale. Anche la muscolatura massiccia associata alle mandibole va in questa direzione, e aiutava probabilmente l'australopiteco a masticare e a macinare le foglie delle piante.
Resta ancora un mistero invece la causa della sua morte, secondo alcuni ricercatori avvenuta tra i 12 e i 18 anni di età. L'aspettativa di vita di un Australopithecus afarensis è stata stimata a circa 25 anni, Lucy quindi era una femmina adulta nel pieno dell'età riproduttiva, anche se mostrava già segni legati all'invecchiamento. Sulle ossa non ci sono però tracce evidenti di ferite o traumi, fatta eccezione per alcuni i segni di denti lasciati post mortem da animali carnivori e spazzini come le iene. Secondo alcuni studiosi, però, potrebbe essere morta cadendo da un albero molto alto, ma questa ipotesi non è condivisa da tutti.
L'importanza culturale e l'eredità di Lucy
Negli anni Lucy è diventata senza dubbio l'Australopithecus più famoso al mondo e sono state organizzate per lei mostre, documentari e riproduzioni esposte nei musei di tutto il pianeta. Nel 2014 il regista francese Luc Besson si è ispirato in parte proprio alla sua storia per realizzare il film "Lucy" con protagonisti Scarlett Johansson e Morgan Freeman. I suoi resti si trovano ancora oggi presso il Museo Nazionale dell'Etiopia ad Addis Abeba, conservati gelosamente in un stanza non accessibile al pubblico.
L'importanza mediatica e scientifica di Lucy e delle altre australopitecine (oggi si conoscono almeno sei specie diverse appartenenti al genere Australopithecus) era racchiusa nel fatto che questi ominidi, con le loro caratteristiche intermedie tra il genere Homo e i primati più antichi, sembravano essere l'"anello mancante" perfetto nell'ipotetica "marcia al progresso" che ha portato le scimmie a sollevarsi in piedi e a diventare ciò che siamo noi umani moderni. Oggi però, soprattutto grazie alle enormi quantità di scoperte avvenute nei decenni successivi, sappiamo che sia il concetto di "anello mancante" che di evoluzione lineare sono ormai ampiamente superati e non hanno più alcun valore scientifico.
L'evoluzione umana è quanto di più lontano possa esistere da un percorso lineare verso la perfezione che ci siamo autoattribuiti noi Homo sapiens. Le evidenze fossili mostrano chiaramente che la storia naturale delle numerose specie umane e dei loro più remoti antenati è stato un processo molto più intricato, paragonabile a un cespuglio che coi suo numerosi rami, spesso paralleli, ha portato alla nascita di diversi modi di esseri umani. Alcune di queste numerose specie umane hanno vissuto insieme, si sono scontrate tra loro, mentre altre si sono persino incrociate e ce le portiamo dietro ancora oggi all'interno del nostro DNA. Noi Homo sapiens non siamo altro quindi che l'ultimo fortunato rametto di un arbusto assai più ingarbugliato di quello che crediamo e che, intorno ai 3 o 4 milioni di fa, ha avuto una sua fondamentale tappa evolutiva in qualcosa di molto simile alla famosissima Lucy.