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7 Dicembre 2021
13:03

La storia di Giannone, un’adozione frettolosa e inconsapevole

Giannone vive con noi da 7 anni, ma il percorso che ci ha portati ad adottarlo è stato tutt'altro che consapevole. Oggi siamo inseparabili, ma se tornassimo indietro prenderemmo le stesse decisioni?

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La storia della nostra nuova vita ha avuto inizio nel 2014, quando Simone, appena laureato, mi disse per la prima volta: «Sogno da sempre adottare un cane, ora che ho finito l'università è arrivato il momento giusto». Al tempo vivevamo da pochi mesi insieme in un appartamentino a due passi dal duomo di Padova e stavamo attraversando quel periodo della vita in cui ci si sente per la prima volta completamente adulti, ma ripensandoci dopo, era più che altro una sensazione, perché proprio adulti non lo eravamo. Però eravamo ottimisti, avevamo tanti sogni e poca paura. Eravamo convinti delle nostre idee e certi che con impegno e determinazione tutto sarebbe andato per il verso giusto. Un periodo straordinario che decidemmo di coronare andando al canile più vicino per cercare un cane fatto apposta per noi: giovani, sportivi, sempre pronti per una gita in montagna: cosa poteva andare storto?

Il primo giorno in canile: la brutta sensazione di fare shopping

Era il 4 dicembre ed eravamo immersi in quella nebbia fitta tipica della Pianura Padana in inverno. Emozionatissimi, stavamo andando per la prima volta a cercare il nostro futuro compagno di avventure: sognavamo un cane che fosse pronto ad accompagnarci nei nostri trekking, un cane con cui condividere i pomeriggi nei boschi, a cui piacesse svegliarsi presto e saltare in macchina, in treno o in autobus per raggiungere ogni settimana un posto nuovo. Sognavamo lunghe passeggiate insieme sulle colline, nei boschi, nei prati, senza bisogno di guinzaglio, perché alla folla della città abbiamo sempre preferito la solitudine della natura che permette di muoversi senza costrizioni.

Arrivati davanti al muro del canile, speravamo che dietro quel cancello, ci fosse il nostro nuovo amico, e avevamo una sola richiesta: il 26 dicembre saremmo partiti per le vacanze in Alto Adige e volevamo proprio che, anche se non conoscevamo ancora la sua identità, venisse con noi.

Ad accoglierci, arrivò una volontaria che ci disse con noncuranza: «Fatevi un giro, se poi avete un'idea, fatemi sapere, io vado in ufficio». Girando tra le gabbie, come molte persone che vivono questa esperienza per la prima volta, pensammo che fosse impossibile scegliere un essere vivente solo guardandolo, come fossero abiti in saldo al di là di una vetrina, ma allora non sapevamo quali potessero essere le alternative e quindi, seguendo il consiglio della volontaria continuammo a girare.

Di quel lungo giro ricordo solo Baffo, un cane da pastore con il tartufo rosso di cui mi ero completamente innamorata ma, parlandone con Simone, avevamo deciso di non sceglierlo perché era troppo grande. E poi dal nulla ci raggiunse la voce della volontaria che, alle nostre spalle, ci disse: «Stiamo chiudendo, dovete andare via». E così facemmo. Seguendo le indicazioni della donna, ce ne andammo più confusi di prima, chiedendoci se non fosse il caso di cambiare canile perché avevamo avuto l'impressione di non essere i benvenuti.

Il secondo tentativo: nel box di Rocky

Nelle settimane successive, parlando con gli amici della nostra intenzione di adottare un cane, una conoscente ci consigliò un'altra struttura, dove secondo lei avremmo potuto trovare un cane adatto a noi. E fu così che, in un'altra mattina di nebbia fitta, salimmo in macchina alla volta di un secondo canile, disperso nel nulla della Pianura Padana. Ad accoglierci il solito cancello e un'altra volontaria che, questa volta, ci accompagnò lungo le lunghe file di box parlandoci di Rocky, un cane nero arrivato da qualche giorno in canile che, secondo lei era perfetto per noi. «Non lo conosco ancora bene. So solo che ha un anno ed è stato sequestrato da pochi giorni dalla sua precedente famiglia, ma assomiglia a un Labrador, quindi fa proprio al caso vostro». E infatti, arrivati di fronte al box di Rocky, Simone e io ci guardammo e chiedemmo immediatamente alla volontaria di poter entrare: «Certo, andate, i Labrador di solito sono innocui».

Oggi mi chiedo come potesse pensare che Rocky fosse un Labrador, visto che di questa razza ne ha solo l'apparenza. Dopo 10 minuti passati con lui è chiaro come il giorno che si tratta solo di una maschera sotto alla quale è celato tutt'altro. E poi, come faceva a sapere che lui era adatto per noi: non ci aveva nemmeno chiesto chi fossimo.

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Dei 30 secondi passati quel giorno nel box insieme a Rocky ricordo solo i suoi morsetti e lo sguardo di Simone completamente rapito da quello strano essere vivente completamente nero, fatta eccezione per gli occhi che erano giallissimi. «Uscite! si sta emozionando troppo», e ancora una volta ubbidimmo senza farci domande, con un sorriso enorme, innamorati di quello che per noi era il più bel cane del mondo. Chiedemmo alla volontaria quando saremmo potuti tornare a prenderlo e ci disse: «Prima di portarlo a casa, dovete venire un giorno a portarlo a spasso per capire se vi piace».

I campanelli d'allarme che non si accesero

Se ripenso oggi a quei giorni, provo un'enorme tristezza perché avrei preferito scegliere il mio compagno di avventure in maniera più razionale e consapevole, imparando a conoscerlo prima di pretendere di caricarlo in macchina e spostarlo in centro città. Avrei preferito prendermi il tempo per chiedermi se fossimo adatti a condividere la vita e se le mie aspettative per il fine settimana assomigliassero alle sue. Mi sarebbe piaciuto avere il coraggio di chiedere: «Chi è Rocky?», invece che limitarmi al «Possiamo venire a prenderlo il 21 dicembre?». Avrei voluto avere l'umiltà di capire che serviva tempo, il coraggio di ammettere che forse lui non cercava noi, ma una famiglia più adulta e sicura, in grado di accompagnarlo senza ansie nella nuova avventura.

Purtroppo però, al tempo non facevo l'educatrice cinofila, non sapevo nulla di cani e credevo che l'adozione si potesse svolgere solo così. Se solo avessimo saputo che esisteva un'alternativa, che ci sono canili in cui viene permesso alle famiglie di sapere qualcosa di più riguardo ai cani e seguire un percorso preadottivo, sicuramente avremmo scelto quella soluzione, invece finimmo per commettere uno dei più grandi errori: scegliere il cane sulla base del suo aspetto esteriore. 

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La prima passeggiata con Rocky e il suo sguardo che è ancora oggi lo stesso

Come promesso tornammo in canile per vedere ancora una volta Rocky. Un volontario andò nel suo box a recuperarlo, gli mise il collare rosso e un guinzaglio e ci aprì la porta del cancello: «Tornate per le 13, che poi me ne vado». La prima cosa che ci venne da fare fu cominciare a correre tutti e 3 insieme. Ricordo che tirava come un matto e che, con quello sguardo che ora conosco meglio di qualunque altro, sembrava dire «Toglietemi questa corda».

Mesi dopo scoprii che Rocky un guinzaglio non l'aveva mai visto prima e, molto probabilmente, nemmeno il mondo intorno a noi, perché come ci raccontarono tempo dopo, era nato in Romania, trasportato a 40 giorni in Italia con una staffetta illegale poi adottato da una famiglia che lo teneva in un recinto minuscolo e gli portava il cibo due volte a settimana.

Rocky, che poi diventò Giannone, non aveva mai visto il mondo, mentre Simone e io, non solo non avevamo idea di cosa questo potesse significare, ma non eravamo nemmeno pronti per affrontare un'avventura così impegnativa. Nessuno però ce lo disse e quindi arrivò il 21 dicembre, aprimmo la porta dell'auto, lui saltò su e ce ne andammo senza nemmeno portare con noi un guinzaglio. Nella nostra testa, non ne avevamo bisogno: per quale motivo non avrebbe dovuto voler stare al nostro fianco?

Il 21 dicembre e il 28 gennaio: l'inizio della nuova vita

Dal giorno in cui Giannone venne a casa con noi, passò un mese prima che ci rendessimo conto che qualcosa stava andando nel verso sbagliato. Le vacanze in Alto Adige filarono lisce come previsto, eravamo felicissimi di poter andare finalmente in montagna insieme al nostro cane e lo portavamo ovunque con noi: al bar, al ristorante, in città, in treno. Poi però qualcosa cominciò a farci capire che Giannone non stava benissimo: abbaiava alle persone, rincorreva le biciclette, ci mordeva in continuazione le gambe e non potevamo avvicinarci a nessuno, perché lui saltava addosso alle persone, nell'intento di allontanarle. Quando cercavo di prendere il treno poi, lui si inchiodava immobile e mi fissava con quello sguardo: «Toglimi questa corda, io me ne vado». I giorni passarono così, finché arrivò il 28 gennaio, un giorno che non dimenticheremo mai.

Stavo tornando da un lungo viaggio di lavoro in Germania e, scesa dall'aereo chiamai Simone per dirgli che ero in arrivo. Capii immediatamente che qualcosa non andava: «Ho perso Giannone. Ero in montagna e l'ho visto seguire una pista. Non l'ho più trovato, ora è notte e sto andando a casa, domani torniamo lì».

A partire da quel momento e per le successive 72 ore ricordo solo il panico e la disperazione di aver perso il cane dopo appena un mese che viveva con noi. A peggiorare ulteriormente la situazione, arrivò la notizia che il canile dove lo avevamo adottato aveva scordato di compilare le carte per il passaggio di proprietà e quindi non risultava ancora nostro. Questo significava che anche se fosse stato consegnato all'Asl veterinaria, nessuno avrebbe potuto risalire a noi leggendo il microchip che, tra l'altro, aveva codici romeni e quindi non riconoscibili per il sistema italiano.

Passarono 3 interminabili notti, durante le quali Simone e io ci sentimmo infinitamente scemi, inadatti, soli e disperati. Provavamo a dormire, ma continuavamo a pensare a dove potesse trovarsi, terrorizzati di aver rovinato la vita del nostro cane.

Le giornate invece, le passavamo a telefonare a tutte le strutture veterinarie da Padova a Pordenone, a Vicenza, Belluno e Trento, finché al terzo giorno una clinica mi disse: «Si, lo abbiamo qui, è un mix labrador tutto nero con gli occhi gialli». Non ricordo nulla del viaggio per raggiungere la clinica, ma ricordo Giannone che, per l'emozione, fece la pipì appena ci vide e pianse finché non lo caricammo in macchina, pronti per tornare a casa, dove lo aspettava la sua cuccia.

Questa esperienza surreale che a 7 anni di distanza mi fa ancora rabbrividire, cambiò completamente il nostro futuro e ci portò a prendere decisioni che mai avremmo immaginato di prendere e strade che senza Giannone non avremmo mai percorso.

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Le nostre nuove strade

«Riportatelo in canile, questo cane vi sta facendo impazzire». Era la frase che ci sentivamo dire più spesso, ma noi non riuscivamo a capire come si potesse pensare che bastasse restituirlo per annullare il senso di responsabilità che provavamo per la relazione che stavamo costruendo con lui. Continuava ad abbaiare a chiunque, le passeggiate insieme invece che essere rilassanti, erano i momenti più stressanti delle nostre giornate. Non capivamo quale fosse il problema e non avevamo idea di come poterlo aiutare a superare le sue difficoltà. Inoltre, ora non avevamo più il coraggio di liberarlo e quindi stava sempre al guinzaglio, anche se continuava a guardare quella corda con il solito sguardo di disprezzo.

In quel periodo stavamo scoprendo che, anche se assomigliava molto ad un Labrador, la sua personalità in realtà era molto più simile a quella di un segugio. Inoltre, la carenza di esperienze che aveva caratterizzato il suo primo anno di vita e il trauma vissuto durante il lungo viaggio che l'ha portato in Italia erano evidenti, ora che Rocky stava prendendo sicurezza.

Nonostante la nostra palese inesperienza e la nostra insicurezza, eravamo certi che non potevamo mollare: nei mesi successivi infatti ci trasferimmo nelle montagne, dove pensavamo che saremmo stati meglio tutti e che, anche Giannone, non avrebbe dovuto passare troppo tempo tra le automobili e lo stress della città. Nel 2016 inoltre, decisi di intraprendere il percorso che mi avrebbe portata a diventare educatrice cinofila. Una decisione inaspettata, grazie alla quale avrei scoperto come aiutarlo a uscire dalla sua ombrosità, a vivere meglio l'universo che lo circondava e ad avventurarsi nel mondo con un po'meno timore.

Proprio grazie a quel percorso inoltre, conobbi un istruttore cinofilo che ci aiutò a superare il trauma della sua fuga e ci permise finalmente di tornare a togliere il guinzaglio a Giannone, perché un segugio non si accontenterà mai dei 3 metri intorno a noi: tutti elementi che in un canile gestito da figure professionali, forse, avrei scoperto molto prima evitandogli innumerevoli sofferenze.

Si, perché se oggi mi si avvicinassero Simone e Claudia di 7 anni fa, gli direi sicuramente che un cane da caccia non fa per loro, perché i boschi e le montagne sono posti che per le via delle sue motivazioni, lo spingeranno sempre a volere più tempo e più spazio per perlustrare tutto con il suo enorme naso. Se oggi, come educatrice cinofila, vedessi noi due, direi: «Voi state cercando un cane che abbia voglia di fare movimento e che non abbia problemi con le situazioni nuove, perché siete sempre in viaggio».

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7 anni dopo

Oggi Giannone ovviamente vive ancora con noi e, nonostante tutto, alcune delle sue difficoltà sono rimaste, ma il mondo che ci siamo costruiti, l'ambiente che circonda e le nostre abitudini si sono via via adattate per permettere a noi e a lui di vivere senza incontrare ostacoli ovunque. Abbiamo superato insieme ogni genere di avventura e avversità e ci ha accompagnati in ogni trasloco, in ogni cambio di lavoro e in ogni genere di esperienza: dal nostro matrimonio, al Cammino di Santiago, alle lunghe giornate del lock down del 2020.

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A noi però, dopo 7 anni, e mentre Giannone comincia ad avere la barbetta bianca, rimangono alcune grandi domande a cui non sapremo mai rispondere: cosa sarebbe successo se avessimo avuto l'opportunità di affrontare l'adozione in maniera consapevole? Se invece che pretendere di avere un cane entro natale, come fosse un gioco da tavola da usare durante le feste, avessimo chiesto ad un esperto di guidarci nella scelta del nostro futuro compagno di vita? Non posso e non voglio immaginare la mia vita senza di lui ma, se gli avessimo lasciato il tempo necessario, lui avrebbe davvero scelto noi, giovani, inconsapevoli e convinti di essere adulti, o avrebbe preferito una famiglia più esperta e in grado di aiutarlo fin da subito a curare le cicatrici rimaste dal suo passato?

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Claudia Negrisolo
Educatrice cinofila
Il mio habitat è la montagna. Sono nata in Alto Adige e già da bambina andavo nel bosco con il binocolo al collo per osservare silenziosamente i comportamenti degli animali selvatici. Ho vissuto tra le montagne della Svizzera, in Spagna e sulle Alpi Bavaresi, poi ho studiato etologia, sono diventata educatrice cinofila e ho trovato il mio posto in Trentino, sulle Dolomiti di Brenta. Ora scrivo di animali selvatici e domestici che vivono più o meno vicini agli esseri umani, con la speranza di sensibilizzare alla tutela di ogni vita che abita questo Pianeta.
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