La socializzazione è il processo di apprendimento dei caratteri sociali che ha precise tempistiche e modalità, a seconda della specie. Secondo la definizione di Danilo Mainardi nel suo “Dizionario di etologia”, la socializzazione rappresenta un fenomeno di acquisizione di caratteri sociali attraverso una serie di esperienze che modificano lo sviluppo di un individuo.
In altre parole, la socializzazione del gatto è quel complesso di apprendimenti che al gattino in formazione permette di comprendere chi sono i suoi partner sociali, quali sono gli individui – e le specie – che può guardare con familiarità e con cui può stringere legami sociali basati sulla fiducia e la conoscenza reciproca.
Detto in altre parole ancora, la socializzazione è quell’insieme di apprendimenti che – se fatti all’età giusta – permettono al gattino di sviluppare un carattere aperto e fiducioso nei confronti degli esseri umani e di altre specie.
Perché la socializzazione è importante
La socializzazione è indubbiamente un processo evolutivo: attraverso la socializzazione il gattino può crearsi gli strumenti conoscitivi che gli permettano di adattarsi al meglio al contesto sociale in cui è nato e in cui, presumibilmente, vivrà tutta la sua vita. E un buon adattamento correla sempre positivamente con la possibilità di affrontare le sfide, di prendere buone decisioni, di intessere relazioni significative, di sviluppare nuovi apprendimenti, di sopravvivere.
Quando far socializzare il gatto?
In questo senso, il periodo ottimale per la socializzazione nei confronti dell’uomo è – scienza alla mano – tra le 2 e le 7 settimane di vita. Ossia, affinché un gattino sviluppi fiducia e interesse verso il genere umano, è necessario che interagisca in modo amichevole e rassicurante con uomini, donne e bambini non più tardi delle 2-7 settimane di vita. A man mano che ci si allontana da questa finestra temporale, il gatto tenderà a sviluppare un atteggiamento sempre più diffidente e potrà arrivare a “rinselvatichirsi”, ovvero a condurre uno stile di vita totalmente emancipato dall’uomo, evitandolo attivamente.
Mamma gatta, primo insegnante
Il primo modello a cui i gattini fanno riferimento durante il processo di socializzazione è, naturalmente, la mamma: se questa si manifesta aperta e socievole con gli esseri umani, lo faranno anche loro, soprattutto se vengono toccati e massaggiati sin da piccolissimi. Al contrario, è ancora possibile riuscire a conquistare la fiducia di una nidiata partorita da una gatta elusiva ma si farà molta più fatica e i risultati potranno non essere particolarmente stabili.
La socializzazione dei gatti d'allevamento
I gatti che nascono negli allevamenti, invece, hanno spesso la possibilità di crescere a stretto contatto con l’allevatore e di sviluppare, quindi, un buon grado di fiducia e amichevolezza nei confronti dell’uomo. Questo, naturalmente, a patto che l’allevatore di occupi appositamente della loro socializzazione: anche i micetti della razza più mite del mondo, se lasciati a se stessi e non seguiti nel periodo che va dalle 2 alle 7 settimane almeno, possono sviluppare paure e diffidenze importanti fino a rinselvatichirsi come qualunque altro gatto di strada (ma con molte competenze in meno).
Far ambientare il gatto in una nuova casa
Il fatto che un gatto sia socializzato con l’uomo, tuttavia, non significa che non ne abbia mai paura o che non mostri mai diffidenza. Appena arrivato nella sua nuova casa, ad esempio, è più che plausibile che un micio possa sentirsi disorientato e, per le prime ore – o magari i primi giorni – scelga di restare più defilato, esplorando con cautela e con gradualità. In questi casi, il modo migliore per rassicurarlo è lasciarlo muovere con i tempi e gli spazi che riterrà più adeguati, magari dedicandogli una stanza della casa dove potrà trovare rifugio e tutto ciò di cui ha bisogno per i primi giorni. Rotto il ghiaccio, capito che il nuovo ambiente non è minaccioso, sarà pronto a tirare fuori tutto il suo potenziale dal punto di vista sociale.
Riconoscere un gatto non socializzato
Il gatto non socializzato all’uomo, invece, soprattutto se adulto, lo si riconosce perché mostra stabilmente una grande diffidenza, resta rintanato e non abbandona il rifugio remoto che si è trovato, se non quando è solo in casa. È un gatto che non fa progressi e ha un unico pensiero fisso nella testa: “sono in trappola, la mia sopravvivenza è a rischio, voglio andare via da qui!”. Per questo tipo di gatti, che non hanno sviluppato le strutture mentali per concepire l’inserimento in una famiglia umana – e che, anzi, vedranno le persone sempre come degli aguzzini -, lo stile di vita più idoneo, quello che meglio rispetta la loro salute fisica e mentale, è uno stile outdoor. Devono vivere, cioè, da gatti liberi, con tutti i rischi annessi, perché diversamente sono destinati ad una qualità della vita misera e al limiti del maltrattamento.