Contro la proposta di legge di vietare per sempre in Sud Corea il consumo di carne di cane e gli allevamenti di cani destinati a rifornirlo, 200 allevatori sono scesi in piazza a Seul. Al grido di “combatteremo, combatteremo” la Korea Dog Meat Farmers' Association, che da tempo si oppone al tentativo del governo di mettere fine alla tradizione ormai sempre più in disuso soprattutto fra i giovani, ha anche affermato che non esclude di utilizzare un’ultima “arma” per ottenere il cambio di passo del governo: rilasciare cioè circa 2 milioni di cani vicino ai monumenti governativi di Seoul e alle case dei legislatori.
Secondo il Time la protesta era guidata da Joo Young-bong, il capo dell’associazione che, nell’annunciare la possibilità di liberare i cani dagli allevamenti, ha svelato anche il proposito di farlo nei pressi dell'ufficio presidenziale, della casa del ministro dell'Agricoltura e degli uffici dei legislatori che hanno presentato le leggi. I tafferugli scoppiati durante la protesta hanno costretto la polizia all’intervento e all’allontanamento dei camion che avevano trasportato sul posto alcune centinaia di cani provenienti dagli allevamenti.
La protesta nasce dall’annuncio del governo dell’intenzione di arrivare, entro la fine dell’anno, a firmare un disegno di legge per mettere fine all’industria della carne di cane, un business che oggi comporta nel Paese l’allevamento e l’uccisione per il consumo umano di circa un milione di cani l’anno. Malgrado infatti la Corea del Sud non abbia una posizione specifica rispetto all’uso di carne di cane come alimento e che quindi gli allevamenti non si possano considerare illegali, negli ultimi anni si è andato sempre più sviluppando un’avversione verso questa pratica che era stata ben rappresentata dai risultati di un sondaggio d’opinione di Nielsen Korea commissionati da Humane Society International/Europe che riferiva che l’ 86% dei sudcoreani non voleva più mangiare carne di cane e che oltre la metà, il 57%, era favorevole al divieto.
A questo si era poi aggiunta la presa di posizione della first lady Kim Keon-hee che si era spinta a schierarsi pubblicamente contro questa tradizione e a chiedere ai suoi concittadini di fare come lei. La first lady ha voluto ribadire la sua posizione anche pochi giorni fa nella visita di stato a Londra quando, incontrando la regina Camilla, l’ha informata delle iniziative legislative della Corea del Sud per vietare il consumo di carne di cane sottolineando che «in Corea la cultura del consumo di cani persiste ancora». Per la donna il divieto rappresenterebbe un passo costruttivo per aumentare la consapevolezza dei diritti degli animali nel paese.
Sempre secondo quanto riporta il quotidiano, il disegno di legge che mira a porre fine al commercio di carne di cane in Corea del Sud entro il 2027 e che è stato annunciato dal People Power Party il 17 novembre, «costringerebbe le aziende, allevamenti di cani, macellerie, rivenditori e ristoranti, a presentare alle autorità locali i loro le modalità di eliminazione graduale della carne di cane». Il passaggio, certo economicamente difficile da affrontare per gli allevatori, verrebbe inoltre sostenuto dal governo, pronto a concedere loro un periodo di tre anni e un aiuto finanziario per uscire dal commercio e trasformare l’attività.
Il People Power Party avrebbe anche suggerito una pena detentiva massima di cinque anni o una multa di 50 milioni di won (38.000 dollari) per i trasgressori del divieto. Ma anche questo punto è in contrasto con quanto richiesto dagli allevatori che hanno indetto la protesta che chiedono invece un periodo di transizione più lungo e un risarcimento economico diretto e non legato alla riconversione dell’attività. Anche perché, sottolineano, «la maggior parte dei lavoratori dell’industria della carne di cane ha tra i 60 e i 70 anni, il che significa che stanno cercando la pensione, non nuove occupazioni».
Ma la riconversione degli allevamenti in nuove attività commerciali in grado di sostentare i vecchi proprietari non è una novità in Sud Corea dove secondo le autorità ci sarebbero ancora più di 1.000 allevamenti e 34 macelli, oltre a circa 1.600 ristoranti che servono carne di cane, mentre secondo i rappresentanti del settore i numeri sarebbero molto più grandi, con circa 3.500 aziende agricole e 3.000 ristoranti che rischiano di chiudere qualora venisse implementato un divieto. Solo a marzo di quest’anno HSI Corea aveva convinto il diciottesimo allevatore a trasformare la sua attività in una coltivazione mandando in adozione i 200 cani e cuccioli dell’allevamento negli Stati Uniti. ll signor Yang era stato solo l’ultimo partecipante al progetto di trasformazione della sua attività Models for change istituto da HSI in Sud Corea proprio con l’obiettivo di offrire un’alternativa agli allevatori intenzionati a cambiare modello, anche sulla spinta delle nuove generazioni sempre più maldisposte verso la tradizione, oltre che per i mancati guadagni derivati da una diminuzione della richiesta.
Anche per questo, alla notizia della protesta, Sangkyung Lee, responsabile della campagna per la fine della carne di cane presso Humane Society International/Korea, ha sottolineato: «Le proteste e le minacce da parte delle associazioni di allevatori di cani, relativamente piccole ma molto rumorose, non sono nell'interesse degli allevatori e non sono rappresentative di molti allevatori di cani che si rendono conto che questa industria crudele e anacronistica è in pericolo». Secondo l’attivista «le minacce di sfilare pubblicamente, liberare o addirittura macellare i cani non sono insolite da parte delle associazioni di allevatori di cani, ma sono tattiche d'urto di cattivo gusto che non mostrano alcun riguardo per il benessere degli animali. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è una negoziazione calma e misurata, in modo che tutte le parti possano lavorare insieme per far tramontare questa industria e consegnare l'uccisione dei cani per il consumo umano ai libri di storia della Corea».
L’obiettivo dell’organizzazione, da anni impegnata a contrastare il dog mat trade nel Sud Est Asiatico, continua ad essere quello della definitiva abolizione di questo commercio e della scomparsa della carne di cane dalle tavole degli ultimi ristoranti che persistono in una tradizione che mette in cattiva luce a livello internazionale l’intera nazione sudcoreana. «Resistere a questo divieto non cambierà il fatto indiscutibile che la stragrande maggioranza delle persone in Corea del Sud non mangia carne di cane. È un'industria che ha esaurito il suo tempo. Accettare questa realtà e aiutare gli allevatori in questa fase di adattamento è la cosa migliore che le associazioni di allevatori di cani possano fare». Con l’augurio che la scelta possa essere quella di un passaggio verso l’alimentazione vegetale su larga scala. «Passare alla coltivazione in un momento in cui la Corea del Sud ha appena lanciato una strategia nazionale per promuovere un'alimentazione a base vegetale sarebbe un approccio davvero visionario, che sostiene gli allevatori nella scelta di far parte del futuro piano alimentare del Paese, invece di ancorarli al passato».