La notizia viene pubblicata su Daily Mail, sulla BBC, su Sky News Uk, The Indipendent e molti altri media anglosassoni. Poi rimbalza in tutto il mondo e in Italia, in particolare, viene praticamente tradotta e riportata nello stesso identico modo su tutti i siti generalisti e non solo.
In tempi di informazione online in cui un titolo è l'elemento su cui la maggioranza dei lettori si ferma e che quanto più curioso è tanto più otterrà successo, non stupisce che la storia di una donna inglese che si è recata in un centro di recupero della fauna selvatica con un ammasso di peli dentro una cassetta credendo di aver salvato un riccio abbia fatto presa su tanti.
A raccontare la vicenda, sempre per quello che riportano i media che l'hanno diffusa, è una donna che si chiama Janet Kotze – che a volte viene definita "direttrice dell'ospedale", altre "veterinaria di turno" – e che lavorerebbe al Lower Moss Wood Nature Reserve & Wildlife Hospital che si trova a Knutsford, nella contea del Cheshire situata nel nord-ovest dell'Inghilterra.
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La storia è presto detta: la veterinaria racconta appunto di una donna che ha portato quello che credeva essere un cucciolo di riccio dentro una scatola con tanto di cibo per gatti accanto che lei gli aveva fornito durante la notte in attesa, appunto, di recarsi da esperti per consentire all'animale di sopravvivere. Poi, però, la dottoressa Kotze si rende conto che dentro la scatola non c'è alcun essere vivente ma il pompon di un cappello. Sempre secondo le dichiarazioni riportate, la donna è stata da lei informata e si è dileguata insieme al grande imbarazzo per quanto era avvenuto.
In questo modo, dunque, questa notizia viene diffusa con una semplice traduzione anche in Italia. Quando però si cerca di capire se davvero le cose sono andate così, il risultato è che ci si scontra con una richiesta di danaro – non da parte della clinica, lo sottolineiamo subito – per avere solo la risposta che cercavamo: ruolo e conferma che la veterinaria lavori nell'ospedale per selvatici.
Abbiamo infatti cercato informazioni su di lei, prima di tutto andando sul sito ufficiale del Lower Moss Wood Nature Reserve & Wildlife Hospital, dove però non abbiamo trovato nulla rispetto al personale che opera nella clinica. Sul loro profilo Facebook, invece, c'è traccia della storia, fissata in alto sul profilo. Non c'è però riferimento alla veterinaria che ha accolto la donna con la scatola con dentro il pompon ma c'è un video giustamente esplicativo di come bisogna effettivamente poi comportarsi se si incontra davvero riccio in difficoltà. E' un post del 22 marzo a cui però il centro non ha dato poi seguito con altre pubblicazioni, nonostante le decine di articoli che hanno parlato della storia, mostrando anche il volto della dottoressa Kotze.
Altro modo per verificare l'esistenza di questa veterinaria, chiaramente, è stata cercarla sui social e sul web in generale ma niente, non si trova da nessuna parte. Premesso che non tutti necessariamente devono per forza avere un vita digitale e comunque però trovando strano che il sito dell'ospedale per animali selvatici non ha un "chi siamo" con nomi e riferimenti, ciò che abbiamo fatto è stato contattarli direttamente per chiedergli solo se appunto questa donna lavora lì e sapere il suo ruolo, per non fare un "copia e incolla" ma verificare le informazioni minime necessarie per dare spazio a questo evento che tanto ha colpito "il popolo del web" e così poter dare anche su Kodami le indicazioni corrette (come già abbiamo fatto in diversi articoli dedicati) per agire nel modo migliore per aiutare un riccio in difficoltà.
Lo scambio che poi ci ha portato alla conclusione di questa avventura nel mondo dell'informazione (non) verificata, è stato con l'Office Manager and Assistant Fundraiser del Lower Moss Wood Nature Reserve & Wildlife Hospital a cui avevamo chiesto la conferma del ruolo della dottoressa Kotze. Nella prima risposta, però, ci era stato detto di rivolgerci a nostra volta a un'agenzia di stampa che cura la loro comunicazione.
E' nato così uno scambio di mail in cui il responsabile dell'agenzia ci ha però richiesto subito di pagare per ottenere «dettagli maggiori e foto». Ma la nostra domanda sin dal principio è stata solo una richiesta di conferma sul nome della veterinaria e quale fosse il suo ruolo nella clinica, ovvero senza mettere in dubbio la storia in generale e spiegando che volevamo essere certi che questa donna lavorasse lì, non avendo trovato riscontri, e non copiare quanto già uscito sui siti anche italiani. Non avevamo bisogno di altro materiale ma della certezza della veridicità di una informazione già diffusa ovunque che però non era verificabile da nessuna parte.
La persona con cui ci siamo scritti ha però insistito chiedendoci soldi anche solo per rispondere a una domanda lecita e che anche se avessimo voluto comprare la notizia andava chiaramente confermata. Invece la risposta che ne è conseguita è stata: «Non lavoreremo in questo modo per voi gratuitamente e non possiamo confermare se qualcuno dei dettagli sia vero. Alcuni che avete potrebbero essere errati».
Siamo stati anche avvisati che non avremmo dovuto prendere foto dal Web pena il pagamento del "furto", avendo così pure una lezione di giornalismo da chi viola le basi di questa professione, tanto da arrivare a chiedere soldi già solo per dire se gli elementi di una notizia diffusa sono veri o falsi.
Chiariamo un aspetto fondamentale: le agenzie di stampa hanno tutto il sacrosanto diritto di fare il loro lavoro, ovvero raccogliere storie e venderle ai giornali, ma non possono di certo chiedere soldi per dire, appunto, se gli elementi da loro veicolati sono o non sono veri: dovrebbe essere scontato che lo siano ma quella risposta fa insinuare il dubbio che che così non è.
Altro appunto importante: non si sta parlando di un piccolo errore o di un'informazione che qualche giornale ha dato e un altro no, ma di uno degli elementi basici del giornalismo, il "chi", e fornire delucidazioni in merito dovrebbe essere invece proprio un biglietto da visita a favore di chi vende le notizie per guadagnare fiducia dai media a cui si rivolgono.
Per ridurre la questione all'osso, la risposta sarebbe dovuta essere quasi "offesa", un "ma certo che è verificata la notizia e che la dottoressa si chiama così, è il nostro mestiere fare questo lavoro eticamente" e non «non possiamo confermare se qualcuno dei dettagli sia vero».
Ci siamo così preoccupati di informare la clinica veterinaria di quanto accaduto, spiegando loro che l'agenzia non ci aveva voluto dire se la dottoressa Kotze esiste e che ruolo ha nel loro centro, informandoli che volevano soldi in cambio di questa informazione che dovrebbe essere accessibile a tutti. l'Office Manager and Assistant Fundraiser ci ha risposto subito: «Ci scusiamo che non ti abbiano fornito le informazioni di cui avevi bisogno… sanno che Janet lavora qui ed è la nostra esperta direttrice ospedaliera».
Tutto quanto scritto ha per noi di Kodami un senso solo: in questo caso si tratta di una notizia che in qualche modo afferisce al mondo animale e dunque è nostro dovere e sta nella nostra mission tenere monitorato il mondo delle informazioni, spesso appunto non verificate, che girano intorno agli altri esseri viventi del Pianeta. Questo esempio ci serve ed è stato utile, in fondo, proprio per mostrarvi la nostra metodologia di lavoro e aprire il fronte, qualora vogliate, anche a una riflessione che afferisce al modo in cui ci facciamo catturare da un argomento piuttosto che da un altro.
Lo facciamo per le notizie che riguardano gli animali, ma in realtà accade su tutto ciò che attira il nostro interesse e contiene tendenzialmente una "stranezza"… ma perché ciò avviene? E perché poi gran parte dei media, anche generalisti, seguono la scia e pubblicano senza andare a fondo? La risposta a questa seconda domanda è legata proprio al fascino che subiscono le persone da questo genere di storie che mettono in evidenza le debolezze umane, se così vogliamo definirle, e portano ad un alto tasso di clic e condivisioni.
Nel caso della signora che ha accudito una palla di pelo credendo che fosse il cucciolo di un animale selvatico si nasconde dietro all'interesse che genera sia un nostro lato tenero che ci fa sentire vicini a questa donna ma anche e, purtroppo in maniera più evidente, la necessità di sentirci migliori degli altri, anzi… almeno di qualcun altro. E questo perché se si va a leggere la maggioranza dei commenti sotto questa storia, su qualsiasi sito, si troveranno parole non proprio gentili nei confronti della protagonista che viene poi etichettata come una "poveretta", una "malata di mente", una che "non aveva di meglio da fare".
Ci sono moltissime notizie che necessiterebbero, invece, di molta più attenzione e molta più condivisione e basta pensare già solo agli appelli di adozione che abbiamo qui su Kodami o agli articoli divulgativi in cui si spiega appunto che comportamento attuare se si incontrano degli animali selvatici, come e se intervenire, se è giusto o meno dargli del cibo ad esempio.
Ci sono, in conclusione, tanti episodi non necessariamente "divertenti" o "assurdi" che potrebbero arrivare a creare invece tanta consapevolezza e portare a una cultura della convivenza ma che rimangono, invece, stipati nel Web in qualche antro della Rete nel quale nessuno ci arriverà perché il famoso "passaparola" online non ha funzionato.