“Dominanza” è una parola che nei testi di etologia esiste da sempre. Con la complicità di un equivoco sul suo vero significato biologico, nato più o meno intenzionalmente in alcuni ambienti cinofili, e che la vorrebbe sinonimo di “aggressività”, questa parola, a un tratto, ha iniziato a far paura. Forse in buonafede, nel tentativo di sottrarre terreno fertile a chi ha interesse a far credere che un soggetto dominante sia, necessariamente, aggressivo in modo patologico, qualcuno è arrivato persino a negare l’esistenza della dominanza nel mondo animale. C’è stato un momento in cui parlare di dominanza, in alcuni ambienti, era tabù, e questa parola veniva nominata con sinonimi dal sapore eufemistico, quali “assertività” o “autorevolezza”, nel tentativo di attenuarne il carico espressivo.
Orbene, nelle prossime righe violeremo questo tabù, e ridaremo senso e dignità a una dimensione basilare, e trasversale nel regno animale, delle relazioni tra gli individui.
Relazioni e gerarchie di dominanza
Si definisce “di dominanza” quella relazione tra due individui in cui sussiste un'asimmetria di status: lo status del vincitore è quello di dominante mentre lo status dello sconfitto è di subordinato. Il dominante vince e ottiene privilegi, come un accesso prioritario a risorse chiave, quali il cibo, il partner sessuale o un luogo di riposo. In genere, nell'interazione sono coinvolti sia comportamenti che non implicano un contatto, che comportamenti di contatto. I primi includono l’inseguimento o le minacce, come l’apertura completa delle pinne e l’estroflessione della membrana branchiale nei pesci o le vocalizzazioni e i gesti nei primati, nei cani e nei gatti. Tra i secondi troviamo, a seconda della specie, il colpire col becco degli uccelli; il mordere di pesci, roditori, primati e cani e l’afferrare con le chele, tipico di gamberi, aragoste, paguri e altri crostacei. L’insieme delle relazioni di dominanza che si ripetono tra coppie di individui identifica una gerarchia di dominanza, nell’ambito della quale si rileva una polarità stabile nel risultato dei confronti. In molti piccoli gruppi di animali, diciamo di non più di otto o dieci membri, si creano reti di relazioni di dominanza che configurano gerarchie di forma lineare classica, transitiva: un individuo A domina su B, che domina su C, e quindi A è dominante anche su C.
È il caso, ad esempio, dei gamberi di fiume (Astacus astacus) e delle cornacchie (Corvus corone). Negli animali con un'organizzazione sociale più complessa, come i delfini, gli scimpanzé, e le iene, le gerarchie sono spesso troppo complesse per essere semplicemente classificate come lineari. Si osservano più spesso relazioni intransitive che formano strutture circolari: A domina B, B domina C, ma C, a sua volta, è dominante su A.
Le relazioni di dominanza variano considerevolmente tra le specie, anche all’interno dello stesso genere, come nel caso dei macachi: si va da forme altamente dispotiche e nepotiste, che si osservano nei gruppi di macaco reso (Macaca mulatta), ma anche nelle iene maculate (Crocuta crocuta), a forme di dominanza più rilassata e tollerante, come tra le bertucce (Macaca sylvanus).
Dominanza e aggressività, due concetti diversi
Nei gruppi socialmente stabili, come quelli di suini e bovini a vita libera, solitamente l'aggressività è necessaria solo all’inizio, per la formazione della gerarchia. Una volta che questa si è stabilita, ulteriori aggressioni e lotte tra i membri del gruppo diventano inutili, e quindi rare. Nelle relazioni di dominanza consolidate, dunque, l'aggressività è ridotta o assente.
Ciò dimostra come l’aggressività non sia un indice di dominanza adeguato, poiché permette, al massimo, di misurare solo le interazioni basate su relazioni instabili o inesistenti.
Ma poi, cos’è l’aggressività? L’aggressività è la motivazione che spinge un individuo ad aggredire, ossia a compiere un comportamento dannoso, potenzialmente dannoso o minaccioso verso un altro individuo, con l’obiettivo di aumentare la distanza tra sé e l’altro. L’aggressività può essere vista come un tratto della personalità, ed è influenzata dai geni, dalle esperienze precoci, e da altro. La dominanza, invece, non è un tratto di personalità che un soggetto possiede. Nella maggior parte degli uccelli e dei mammiferi sociali e/o gregari, lo stesso soggetto, relazionandosi con altri individui, può comportarsi da dominante o da sottomesso, e quindi avere la meglio, o meno, in un confronto, a seconda di diversi fattori, che fanno sì che lo stato di dominanza fluttui nel tempo e nei diversi contesti, in relazione al cambiamento delle capacità competitive, della salute e della motivazione
I fattori che regolano la dominanza
La dominanza è regolata da fattori individuali intrinseci, quali, ad esempio, le caratteristiche fisiche (es., dimensioni e peso), fisiologiche (es. età, ormoni come il testosterone e il cortisolo) o genetiche. In alcune specie, anche i tratti di personalità consentono di prevedere l'esito degli incontri tra due individui. Negli uccelli, le cince delle Montagne Rocciose (Poecile gambeli) classificate come “più esploratrici” sono dominanti rispetto a quelle con una bassa tendenza all’esplorazione, mentre tra i pesci, le trote di torrente (Salmo trutta) più audaci hanno maggiori probabilità di dominare quelle più paurose. Un meccanismo simile è stato osservato anche nei cani, i quali, in un incontro agonistico, più che alla taglia dell’avversario, sembrano dar peso a quanto esso appare “sicuro” in quel contesto, e motivato nella richiesta di quella risorsa.
Il ruolo dell’apprendimento
Un altro fattore fondamentale deriva dal condizionamento sociale ed è l’apprendimento, in particolare quello legato alle esperienze recenti che gli individui hanno avuto, come vincitori o perdenti, nei precedenti incontri. Gli individui vittoriosi si comportano successivamente in modo più dominante, mentre i perdenti si comportano in modo più sottomesso. Sia i vincitori che i perdenti, nelle competizioni, acquisiscono informazioni relative al potenziale di mantenimento delle risorse (Resources Holding Potential-RHP) dei loro avversari, anche quando le competizioni non comportano combattimenti fisici, e queste informazioni consentono loro di migliorare la propria strategia negli incontri successivi. I perdenti spesso imparano rapidamente a evitare ulteriori conflitti diretti, alterando o inibendo il proprio comportamento in presenza di conspecifici di rango superiore. E badate bene, talvolta non è nemmeno necessario che abbiano preso parte direttamente a quelle competizioni: a un pesce o a un uccello basta intercettare lo scambio tra altri due conspecifici, per farsi un’idea dello status degli individui uditi o visti, e regolare le interazioni future con loro.
E così, alla fine, in qualche modo vincono tutti, perché, evitando di combattere ogni volta per la conquista della risorsa, entrambi gli individui coinvolti risparmiano tempo e energie, evitano di ferirsi, non si stressano e contribuiscono a promuovere la stabilità e la coesione sociale.
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