Dodici tag satellitari applicati al carapace di altrettante tartarughe marine. Un monitoraggio che consentirà di avere notizie più chiare sulle possibilità di sopravvivenza degli esemplari pescati per errore e rigettati in mare, fornendo al contempo una mappa delle rotte seguite dopo la liberazione.
Il Centro Recupero Tartarughe del WWF di Molfetta ha presentato i primissimi dati di uno studio avviato lo scorso inverno su alcuni esemplari adulti di Caretta caretta. Gli animali oggetto della ricerca sono stati liberati a poche ore dalla loro involontaria cattura, per valutare soprattutto quali effetti e in che modalità eventi accidentali come questi, causati principalmente dalla pesca a strascico, possano determinarne conseguenze per la loro vita.
Fino ad oggi è stato portato avanti un intenso lavoro di sensibilizzazione delle marinerie, per abituare i pescatori a non rigettare immediatamente in mare le tartarughe pescate per errore. Il motivo è presto detto: l’utilizzo di verricelli meccanici porta in brevissimo tempo in superficie le reti. Quello che succede alla tartaruga in questi casi non è molto diverso da ciò che accade al sub che riemerge troppo in fretta dopo essere stato sott’acqua. Nel caso di questi rettili si ha subito la percezione di un gonfiore che riguarda le parti molli e coinvolge i principali organi interni. Molti esemplari, così, muoiono nel giro di poche ore per gas embolismo.
Un’evoluzione negativa per lo stato di salute dell’animale può dipendere da una serie di variabili. Ecco dunque la ragione principale alla base dello studio: comprendere quali condizioni determinino la morte o la sopravvivenza dell’animale per istruire i pescatori a modalità corrette di rilascio in mare. La prima tranche eseguita nei mesi scorsi ha già fornito risultati interessanti. Sebbene in alcuni casi si sia perso contatto con le tartarughe, o in altri casi l’animale sia morto per altre ragioni, il numero di informazioni raccolte in pochi mesi ha già fornito alcuni elementi.
A spiegarlo a Kodami è stato Pasquale Salvemini, responsabile del Centro Recupero Tartarughe WWF di Molfetta: «Dalle indicazioni che abbiamo sugli esemplari portati in ospedale – ci dice – sappiamo che se vengono pescati e hanno gas embolismo, dopo 24 -48 ore muoiono. La stessa cosa accade per quelle tartarughe che, tirate su con la rete, rimangono a bordo per più di 4 ore: prima perdono reattività e poi muoiono. Il problema più grosso riguarda le catture fatte con la pesca a strascico. Le tartarughe in questo periodo si posizionano a 35 metri di profondità o comunque dove ci sia un fondale che garantisca riparo e dia un po’ di cibo. Lì, però, ci vanno anche i pescatori che potrebbero catturare involontariamente anche 2 o 3 esemplari in una sola calata. Grazie alle nostre ricerche abbiamo notato che il tempo della pescata incide molto. Se la rete viene sollevata dopo 6 ore, la tartaruga viene tirata su dopo che ha fatto fatica per ore a liberarsi dal sacco. In questi casi è probabile che la tartaruga portata in superficie risulti già morta o fortemente debilitata. Se la calata è più breve, invece, le probabilità di sopravvivenza sono maggiori».
Le tartarughe liberate dallo scorso inverno sono sicuramente sopravvissute per diversi mesi dopo la liberazione. Il numero di esemplari su cui si basa il campione non è ancora sufficiente, però, per dire che tra queste ci potesse essere qualche animale interessato da gas embolismo, anche perché le tartarughe per questa ricerca vengono liberate senza preventivi accertamenti radiologici sulle loro condizioni di salute.
Ecco perché è importante proseguire nel delicato lavoro di sensibilizzazione delle marinerie. Molti pescatori hanno imparato a dare il proprio contributo per proteggere questi straordinari animali e già oggi seguono le indicazioni fornite dai centri di recupero. Riuscire a trovare modalità che consentano loro di proseguire nelle loro attività lavorative, riducendo al contempo la mortalità delle tartarughe, è l’obiettivo che ci si è prefissati.
La ricerca sta fornendo interessanti indicazioni anche sulle rotte delle tartarughe liberate lungo le coste pugliesi. Ciò che più colpisce è la capacità di macinare chilometri dimostrata dagli esemplari tracciati. La mappa tracciata finora, presentata anche lo scorso ottobre al Simposio Internazionale sulle Tartarughe in Marocco, appare davvero impressionante: da Molfetta e Trani alcune hanno fatto tutto il giro dell’Adriatico, risalendo e riscendendo più volte fino a Venezia. Altre ancora sono scese nel basso Mediterraneo, arrivando in Libano, Cipro, Tunisia, Israele, Malta e Grecia: «Diventa interessante capire come avvengano questi spostamenti rispetto ai punti di deposizione – continua Salvemini – le tartarughe sono animali che tornano al punto dove sono nate. La femmina, quando è pronta per deporre la prima volta, torna sulla stessa spiaggia dove è nata, un po’ come i rondoni e le rondini vanno verso lo stesso nido. Da noi arrivano tartarughe che nascono in Grecia o nel basso Mediterraneo. Stiamo capendo se le rotte ci aiuteranno a capire quali sono i punti dove vanno poi ad accoppiarsi. Questi potranno essere diversi dall’Adriatico, che è area di foraggiamento, in quanto più calmo rispetto al Mediterraneo».
In questi giorni sono già partite 2 nuove tartarughe e presto ne saranno liberate altre che potranno fornire ulteriori indicazioni al Centro Recupero. Immediatamente sono andate verso sud: in un giorno da Trani sono arrivate a Bari. Una prima tappa che lascia pensare come siano tendenzialmente pronte a fare migliaia di chilometri per accoppiarsi e deporre altre uova. Speriamo presto di scoprire dove.