La realtà dei rifugi in Italia è realmente complicata e di difficile gestione. Bisogna partire da lontano per ricostruire la storia dello stato attuale e tutto cominciò nel 1991. Il concetto di "canile rifugio", infatti, nasce in Italia in quest’anno con l’emanazione della Legge Quadro 281/91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo.
Fino a quel giorno i canili avevano un mero ruolo di prevenzione della rabbia. I cani trovati vaganti venivano portati in queste strutture e tenuti in osservazione per dieci giorni, il tempo necessario per le manifestazioni sintomatiche dell’infezione rabida. A seguito di questi dieci giorni di osservazione, se i cani non fossero stati reclamati da alcun proprietario o da alcun adottante, avrebbero potuto essere, e di fatto venivano, sottoposti a eutanasia.
I canili esistenti prima del ’91 rappresentavano quindi un’anticamera della morte certa e così si riteneva dovesse essere messo in atto il controllo del vagantismo canino e felino. La Legge Quadro introdusse per la prima volta il divieto di soppressione dei cani e gatti liberi e introdusse il modello di canile rifugio, trasformando il concetto del canile sanitario esistente fino a quel momento.
Cosa sono i canili sanitari
Ad oggi i canili si distinguono quindi in canili sanitari e canili rifugio. I canili sanitari sono le strutture di prima accoglienza dei cani vaganti catturati. La loro funzione è principalmente la prevenzione della trasmissione di malattie diffusive tra cani e tra cane e uomo. Sono strutture pubbliche le cui prestazioni medico-veterinarie sono garantite dai Servizi Veterinari delle ASL di competenza territoriale. Se i cani non vengono reclamati devono permanere nel canile sanitario per un periodo minimo di dieci giorni e per un massimo di 60, il tempo massimo stabilito in Italia per la restituzione al legittimo proprietario. Per tale motivo la sterilizzazione degli animali non può avvenire prima di questa fascia temporale.
Soffermiamoci un momento su questo punto per fare una riflessione. Questo tetto temporale stabilito sembra davvero assurdo a mio avviso. Dare due mesi di tempo a un proprietario per ricongiungersi con il proprio animale va contro il principio della convivenza responsabile. Si dovrebbe supporre, del resto, che a seguito di uno smarrimento il compagno umano di un animale abbia la necessità urgente di ricongiungersi a lui. Inoltre, al giorno d’oggi la possibilità di essere rintracciati se il cane ha il microchip è elevatissima e gli annunci di smarrimenti di cani senza microchip sono molto diffusi attraverso i canali mediatici: reti sociali, siti dei canili, del Comune e delle associazioni garantiscono infatti una rapida diffusione dell’informazione. Gli unici casi che potrebbero impedire il ricongiungimento immediato, quindi, possono essere problemi personali o di salute, o ancora se la persona interessata si trova fuori dal territorio. In questi casi vi sono però deleghe e nulla osta che permettono ad una terza persona di fiducia recuperare l’animale dalla struttura.
I canili rifugio
Una volta passato il tempo minimo di degenza nel canile sanitario, i cani vengono trasferiti al canile rifugio. Sempre in termini di benessere animale è importante riflettere anche su questa dinamica non certo facile per i soggetti che vengono sottoposti anche a questo passaggio. Si tratta di individui che hanno vissuto il trauma dello smarrimento, dell’abbandono o del prelievo dal territorio di appartenenza nel caso dei randagi propriamente detti. Soggetti che sono già stati sottoposti a altri trasporti e che hanno tentato di adattarsi a un luogo sconosciuto e spesso non confortevole. Per questi cani ricevere un ulteriore spostamento verso un luogo nuovo ed in presenza di nuovi animali è davvero stressante. La formula ideale sarebbe che tutte le strutture rifugio avessero un’area sanitaria d’ingresso, indispensabile in termini di salute pubblica e prevenzione delle malattie diffusive del cane, dove gli animali passino il minimo tempo indispensabile, prima di essere spostati.
I canili rifugio, così come sono ora concepiti, possono essere di proprietà privata o pubblici e possono essere gestiti da imprese private, da associazioni di protezione animale o possono essere a conduzione mista.
I Comuni stabiliscono tramite gare d’appalto pubbliche, spesso al ribasso, il futuro gestore della struttura che dovrà garantire riparo adeguato, alimentazione e cure sanitarie tramite la convenzione con veterinari privati. Alcuni Comuni arricchiscono le gare d’appalto con requisiti basati anche sulla medicina comportamentale, l’educazione cinofila, il benessere animale e le adozioni di qualità, ma purtroppo la regola generale si basa sulla garanzia del minimo indispensabile.
Potenziali problemi nella gestione dei canili rifugio
La presa in gestione di un canile da parte di un privato o di un’associazione non è sempre basata sull’intrinseca volontà di garantire il benessere degli animali.
In primo luogo, il concetto di gare ribassate va di per sé contro la garanzia della tutela degli animali in una struttura. I Comuni dovrebbero attentamente valutare le proposte senza basare la scelta su un piano prettamente economico di risparmio, andrebbero attentamente osservate le proposte dei servizi offerti e valutate sulla potenziale garanzia del benessere dei cani, certamente considerando il rapporto qualità/prezzo.
La normativa dovrebbe quindi tutelare questo processo stabilendo un adeguato costo minimo giornaliero per cane, basato sulle esigenze alimentari, sanitarie ed etologiche della popolazione del rifugio.
Succede a volte, tra l’altro, che i gestori, specialmente se privati, non abbiano l’effettivo interesse di garantire il benessere degli animali. L’ammontare mensile per la gestione del canile viene spesso gestito tramite il concetto per cui meno denaro si investe per gli animali e più denaro entra nelle tasche. Garantire ai cani solo il minimo indispensabile alla sopravvivenza in canile, che corrisponde all’alimentazione e la pulizia dei box, sono spesso gli obiettivi principali di alcuni canili.
Numerose strutture sono sovraffollate, con un bassissimo tasso di adozione e gestite senza tenere in considerazione la qualità della vita dei cani residenti, con inevitabili ripercussioni sullo stato di salute psico-fisica dei soggetti, molti dei quali costretti a vivere tutta la loro vita in tali strutture ed in tali condizioni. Inoltre, il mantenimento dell’elevato numero di animali nei canili, comporta costi di gestione che mettono in dubbio il bilancio costi-benefici di questo come mezzo di controllo del fenomeno randagismo.