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4 Giugno 2023
11:00

Il problema delle plastiche nell’oceano si complica ulteriormente: il biodegradabile non funziona

Non solo le classiche plastiche, così tanto utilizzate nel Novecento, sembrano produrre dei danni agli ecosistemi marini. Anche le versioni biodegradabili inducono infatti dei grandi cambiamenti nel comportamento di alcune specie.

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Una delle crisi principali che stanno affrontando al momento gran parte degli oceani del mondo è la grande quantità di plastiche disperse nel loro fondale. Un pericolo che sta minacciando di imprigionare e intossicare un enorme numero di organismi, costretti a convivere con oltre 2,3 milioni di tonnellate di rifiuti. Tutta questa plastica sta avendo delle pesanti conseguenze, sia a livello biologico che economico, visto che sempre più spesso le battute di pesca nei tre più grandi oceani del mondo (Pacifico, Atlantico e Indiano) diventano infruttuosi, di seguito alla cattura di una grande quantità di detriti galleggianti.

Per risolvere il problema, qualche decennio fa gli scienziati tentarono di sostituire la vecchia plastica (PET, HDPE ecc) con cui le industrie producevano bottiglie, sacchetti, bicchieri e posate con dei nuovi materiali che in gergo furono chiamate plastiche biodegradabili. Una ricerca però appena pubblicata da parte di alcuni docenti dell'Università di Goteborg, in Svezia, sembra aver appena smontato i sogni di moltissimi ecologisti e i sostenitori di questi nuovi materiali, visto che la plastica ricavata dallo zucchero di canna (PLA) sembra minacciare anch'essa l'ambiente.

Questo materiale infatti, seppur inventato per sostituire massivamente la plastica che trae origine dal petrolio fossile, sembra decomporsi in maniera simile alle altre quando sottoposto all'acqua salata del mare, influenzando direttamente il comportamento di diverse specie di pesci, in seguito all'ingestione dei suoi polimeri.

Tra le specie che risultano cambiare comportamento, influenzato dalle molecole invisibili che un contenitore di bioplastica rilascia naturalmente nell'ambiente, c'è anche il pesce persico, uno degli animali più importanti per quanto riguarda l'economia ittica mondiale. «Gli esperimenti tossicologici che analizzano il comportamento degli animali sono molto rari. In questo caso però abbiamo osservato i cambiamenti fisiologici e comportamentali di questa specie, perché aveva ampia rilevanza ecologica e commerciale» ha affermato Azora König Kardgar, ideatrice e autore principale dello studio.

I pesci persici infatti, quando vengono sottoposti alle molecole disciolte nell'acqua di PLA, risultano possedere un comportamento insolito, più aggressivo del normale, e rispondono molto più velocemente alle provocazioni di un potenziale avversario, quando se lo trovano davanti, di modo che sprecano la maggior parte delle loro risorse a vigilare che nessuno gli capiti a tiro. Inoltre, chiarisce la Kardgar, i pesci presentano anche dei chiari disturbi legati al movimento, come l'incapacità improvvisa nel formare banchi, quando vengono sottoposti per molteplici settimane ad acque interessate dalla presenza di grandi cumuli di bioplastiche.

Osservando quindi che il PLA non è innocuo per i pesci, e che anzi potrebbe condurli a cadere vittime di comportamenti che potrebbero arrecare danni alla loro vita sociale come al loro tasso di riproduzione, il team svedese dichiara che secondo loro tale sostanza non dovrebbe essere venduta come alternativa ecologica alla normale plastica. «Dovrebbe essere considerata equivalente alla plastica ordinaria» afferma Azora Kardgar.

C'è però una grande differenza che permette di distinguere ancora i due materiali, sostenendo che la plastica biodegradabile risulta essere ancora migliore, chiariscono gli scienziati, all'interno del loro articolo pubblicato presso la rivista Science of The Total Environment.

La plastica che abbiamo visto vendere sotto qualsiasi formato a partire dal secolo scorso viene prodotta tramite un processo di sintesi chimica, che si ottiene elaborando dei composti di carbonio e idrogeno – chiamati “monomeri” – che si ricavano dal petrolio e dal metano. Produrre invece bioplastica vuol dire ricavare dei materiali che presentano delle proprietà fisiche simili a quelli della vera plastica, partendo da colture alimentari ricche in carboidrati. Produrre perciò la plastica biodegradabile è molto meno inquinante e costoso rispetto a produrre una plastica che ha la sue origine ben radicata nel petrolio.

Tuttavia ciò non vuol dire che produrre più bio plastica tramite le colture delle canne da zucchero sia più etico e vantaggioso dello sfruttare l'altra opzione. Per rifornire infatti il mercato di una ingente quantità di plastica biodegradabile, anche non considerando i danni arrecati alla fauna marina, le industrie occupano migliaia di ettari in varie nazioni equatoriali, costringendo i contadini a produrre delle monoculture da canna da zucchero, sottraendo questi territori alle coltivazioni di altre specie che potrebbero contribuire a sfamare un maggior numero di persone.

Parlare di questi temi dunque rimane sempre molto complesso e per capire quale strada ci conviene scegliere, per garantire a tutti, uomini e animali, di vivere meglio, gli scienziati desiderano comprendere quali sono i punti oscuri dell'industria chimica moderna, nella speranza che gli ecosistemi e le società sappiano reagire meglio al crescente inquinamento rispetto al recente passato.

Sono laureato in Scienze Naturali e in Biologia e Biodiversità Ambientale, con due tesi su argomenti ornitologici. Sono un grande appassionato di escursionismo e di scienze e per questo ho deciso di frequentare un master in comunicazione scientifica. La scrittura è la mia più grande passione.
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