Il maltrattamento animale, oltre che essere una preoccupazione per la tutela degli animali è anche un importante indicatore per la sicurezza pubblica e il benessere sociale. Recenti casi come la morte di due bambini, uno a Eboli e un altro in provincia di Vercelli, a causa della scorretta gestione di Terrier di tipo Bull hanno risollevato la questione sui cosiddetti "cani potenzialmente pericolosi" ma poco ci si è soffermati, a livello di riflessione collettiva anche attraverso i mass media, su quanto questa tipologia di cani a sua volta sia sottoposta a quella che è una forma di maltrattamento animale.
Il maltrattamento animale ha infatti correlazioni profondamente radicate con la violenza contro gli essere umani e può essere un importante indicatore di pericolosità sociale e di disturbi psico-emotivi sottostanti dell’aggressore, e le sue investigazioni costituiscono un importante strumento di prevenzione della criminalità.
Di queste tematiche si occupano approfonditamente il Progetto LINK-ITALIA e la relativa Associazione di Promozione Sociale, che portano avanti diversi progetti, studi scientifici, formazione ed interventi diretti e di cui su Kodami spesso abbiamo parlato. Ma uno dei lavori che negli ultimi tempi ha catturato particolarmente la nostra attenzione è il progetto “Maltrattamento e/o abuso di razza”.
Per comprendere meglio di cosa si tratta, abbiamo intervistato l’ideatrice e responsabile internazionale per il progetto, la biologa e ricercatrice Irene Maja Nanni, e la dottoressa Sofia Di Cocco, medico veterinario e socia della Società Italiana delle Scienze Forensi Veterinarie (SISFV), collaboratrice del progetto.
Cosa si intende per maltrattamento e/o abuso di razza?
Nanni: «Il fenomeno del maltrattamento e/o abuso di razza si inserisce nel panorama LINK e viene definito come quel maltrattamento inferto a cani (in questo caso cani di razze specifiche quali molossoidi e Terrier di Tipo Bull e loro incroci) ad opera di persone di riferimento/detentori con uno specifico e delineato profilo psico-sociale. Questa tipologia di maltrattamento si concretizza quando il cane viene detenuto per poter potenzialmente nuocere ad altri, perché considerato e tenuto come un’arma, nonostante non abbia attitudini comportamentali per poter essere un pericolo. Come è ormai noto, cani di razze di taglia medio grande del gruppo molossoidi e/o Terrier di Tipo Bull suscitano in persone con profili antisociali un interesse particolare per diversi motivi, uno tra questi è la strumentalizzazione delle spiccate potenzialità fisiche. Questi cani possono essere utilizzati per scopi di varia natura: come “front–dog” in situazioni di microcriminalità, nei combattimenti clandestini, e tanto altro, essendo così coinvolti in attività pericolose per la loro incolumità. Per questo motivo si può parlare di abuso di queste razze di cani.
La definizione di questa tipologia di maltrattamento è già stata inserita nel manuale “Crudeltà su Animali e Pericolosità Sociale”, ma ad oggi è importante che tale definizione venga accolta dalla comunità scientifica, per poterne descriver il fenomeno e comprenderne la gravità.
Quale è l’obiettivo del progetto?
Nanni: «Uno tra i tanti obiettivi del progetto è riconoscere la condizione di vittima al cane che proviene da queste situazione di maltrattamenti e abusi. Spesso questi cani vittime del “maltrattamento e/o abuso di razza” possono essere coinvolti in risse fra persone, maltrattamenti, detenzione inadeguata ai loro bisogni etologici. Fino ad oggi però questi cani sono sempre stati visti come complici di determinati soggetti e situazioni ma mai come vittime.
I cani appartenenti a determinate razze non dovrebbero essere definiti pericolosi tout court, purtroppo però l’impatto mediatico di carattere sensazionalistico rivolto a questi cani rende difficile il nostro compito di tutela nei loro confronti. Razze coinvolte in problematiche legate a una mala gestione (dolosa o colposa) si rifletteranno negativamente non solo sul soggetto in questione, ma su tutte le razze che verranno descritte a livello mediatico.
Questo progetto ha inoltre il compito di aumentare la sensibilità verso questi temi, delineando lo stato di vittima ai cani che provengono da situazioni di maltrattamento e il divieto di detenzione da parte di soggetti dalla condotta antisociale e/o deviante, creando così un precedente da poter allargare a tutti i cani ed agli animali in generale.
Un altro degli obiettivi è la riabilitazione per i cani che provengono da contesti difficili e concretamente procedere alla loro ricollocazione, oltre a mettere in campo attività rivolte alla buona informazione nei confronti di queste razze, denominata proprio impatto mediatico delle razze definite aggressive.
Il maltrattamento e/o abuso di razza è un fenomeno troppo spesso sottostimato, ma indice di una problematica sulla quale è necessario agire dall’interno».
Qual è la situazione in Italia e all’estero?
Nanni: «Abbiamo analizzato dati provenienti da alcuni canili del territorio italiano e abbiamo riscontrato che tra cani appartenenti a queste razze o prevalente, circa il 50% arriva in canile per problematiche legate alle condizioni dei proprietari, come attività illecite, microcriminalità e altre attività non compatibili con la detenzione di animali. Grazie alle attuali collaborazioni, stiamo analizzando il fenomeno anche in altri stati e vediamo che è purtroppo abbastanza definito e in linea con ciò che abbiamo osservato fino ad ora in Italia».
Che ruolo può avere il veterinario nel “Maltrattamento e/o Abuso di Razza”?
Di Cocco: «Per il contrasto ai diversi reati verso gli animali, tra cui il “Maltrattamento e/o Abuso di Razza”, è importantissima la collaborazione tra LINK-ITALIA e le Scienze Forensi Veterinarie.
Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione ha confermato e rinforzato l’idea secondo cui, ai fini della condanna per maltrattamento di animali, assumono rilievo anche le condotte offensive in grado di incidere sulla stabilità e serenità fisiopsichica degli animali, anche qualora non si determinino in essi processi patologici.
Questi aspetti possono e devono essere valutati da un medico veterinario. Il veterinario forense (in quanto Ausiliario di Polizia Giudiziaria, Consulente Tecnico del Pubblico Ministero, Perito del Giudice o Consulente di Parte) viene chiamato a seconda della fase processuale e può svolgere attività informativa (ovvero l’acquisizione della notizia di reato tramite denunce, querele, istanze, referti, etc.), investigativa e repressiva. In questo reato il veterinario, pubblico o privato, ha principalmente il ruolo di accertare se e in che modo il benessere dell’animale sia rispettato.
I veterinari pubblici delle ASL sono spesso chiamati congiuntamente alla Polizia Giudiziaria nei sopralluoghi e interventi legati ai reati. L’attività repressiva, di perquisizione o sequestro è finalizzata ad impedire che i reati possano portare ad ulteriori tragiche conseguenze e ad assicurare i responsabili alla giustizia. Il medico veterinario deve saper riconoscere i segni di maltrattamento e/o abusi, per poter disporre la messa in sicurezza degli animali, attraverso l’affidamento in giudiziale custodia a chi ne possa garantire le cure (associazioni e rifugi).
I veterinari liberi professionisti possono invece essere un osservatorio privilegiato sulla criminalità in danno ad animali e fornire importanti segnalazioni di casi e acquisizione di elementi di prova, contribuendo all’educazione e sensibilizzazione su alcuni fenomeni e su una buona gestione dell’animale, sfatando miti, non categorizzando queste razze, divulgando le loro buone caratteristiche. I veterinari clinici purtroppo spesso non sono formati per riconoscere le lesioni non accidentali, suggestive o coerenti con questo reato e ancor meno nella sua specifica del combattimento organizzato. Potrebbero quindi non essere segnalati episodi alle autorità competenti.
I veterinari privati potrebbero contribuire alla prevenzione e all’eradicazione del fenomeno individuando i traumi psicofisici nell’animale condotto in visita ma, a differenza dei veterinari del servizio pubblico, hanno inevitabilmente più timori, diversi costi e potrebbe essere più soggetti a pressioni rispetto a chi lavora nel pubblico.
Per rendere i veterinari (pubblici, privati, forensi) competenti e capaci di svolgere questi ruoli, e in questo caso specifico nell’ambito del reato di “maltrattamento e/o abuso di razza” è fondamentale una formazione e preparazione ad hoc sul fenomeno da un punto di vista legislativo, dei possibili traumi psicofisici sull’animale, del profilo criminale che vi è dietro con l’ausilio di criminologi e psicoterapeuti. È inoltre auspicabile la sinergia tra le distinte professionalità forensi, la creazione di una task force interdisciplinare veterinaria, cinofila-comportamentale, psico-socio-educativa e legislativa per evitare recidive e, soprattutto, per prevenire questo fenomeno».
Quali interventi promuovete ai fini della sensibilizzazione, prevenzione e contrasto del fenomeno?
Nanni: «Gli interventi che vengono promossi in collaborazione con LINK-ITALIA sono innanzitutto la formazione per diverse professionalità, come veterinari, biologi-etologi, educatori professionali ed assistenti sociali, professionalità legali e anche tutte le professionalità legate al comparto cinofilo. Per poter prevenire e contrastare è fondamentale conoscere; abbiamo quindi bisogno di professionisti formati, che siano in grado di riconoscere e far fronte a ciò che abbiamo evidenziato».