Ci siamo spesso occupati su Kodami del fenomeno del randagismo, delle varie problematiche ad esso correlate e soprattutto di un mondo sfaccettato che si muove intorno a una tematica complessa. Un po' di tempo fa abbiamo messo in luce un fenomeno del quale i più non sono a conoscenza e sul quale siamo tornati, per analizzare ancora di più i dati, verificando e cercando di comprendere perché accade. Si tratta dei cosiddetti "falsi ritrovamenti" di cani che stanno avvenendo in una zona in particolare del Nord Italia.
La responsabile del canile municipale di Varese, Alessandra Calafà, presidente della Lega per la difesa del cane – sezione di Varese, si trova in una situazione di difficoltà che non riguarda solo il suo canile ma che si estende anche al canile di Busto Arsizio e ad altri rifugi sul territorio. «Faccio parte di un gruppo di persone che fanno volontariato da almeno trent’anni e dal 2017 abbiamo in gestione il canile Municipale di Varese. In tutti questi anni abbiamo portato avanti una politica di prevenzione al randagismo con campagne di microchippatura, di sterilizzazione e di informazione su tutta la provincia di Varese e i frutti si sono certamente visti. Qui di cani randagi e abbandonati sul territorio non ce ne sono più. I soggetti che arrivano in canile spesso sono dispersi, ma grazie al microchip, in brevissimo riusciamo a riportarli a casa. Altri ingressi sono quelli relativi alle cessioni, ovvero quando un cane, per un motivo o per l’altro, non può più essere tenuto in famiglia e viene ceduto in custodia al canile di riferimento. Ci sono poi i cani sequestrati per maltrattamento o perché l’intestatario è stato messo in stato di arresto, ad esempio. Nel complesso viviamo una situazione gestibile che ci porta ad avere un numero più o meno costante tra ingressi e adozioni».
Dalle parole di Calafà, la situazione nella provincia di Varese si potrebbe dunque definire sotto controllo. E i canili di questa zona riescono a far fronte anche alle emergenze o alle situazioni particolari come per esempio il difficile periodo relativo al lockdown causato dalla pandemia. Ma allora, cosa sta succedendo di particolare?
I falsi abbandoni di cani di cui prima non c'era traccia
«Da qualche anno abbiamo notato un numero strano di ingressi, dovuti a segnalazioni di privati cittadini, di cani sul territorio. Ci siamo confrontati con altre realtà sempre della provincia, Busto Arsizio e Gallarate soprattutto, ma anche Somma Lombarda, ed effettivamente questa “anomalia” riguardava anche loro. Allora abbiamo approfondito facendo richiesta alle amministrazioni e all’ATS (Agenzia Territoriale Sanitaria) di avere accesso agli atti relativi a questi ritrovamenti».
Per coloro che non sono addentro alle procedure che normano l’ingresso di cani nei canili municipali, la trafila è questa: una persona chiama la Polizia Municipale, o direttamente l’ATS, segnalando la presenza di cani vaganti sul territorio. A questo punto viene inviato l’addetto per l'accalappiatura che li prende in carico e li porta al canile sanitario di zona. I cani vengono lì controllati, visitati e vengono fatti accertamenti sulla possibile provenienza. Ma se il chip non è stato applicato, come dovrebbe essere per legge, della persona a cui quel cane era riferito ovviamente nulla si può sapere. Dopo un periodo di dieci giorni i cani vengono poi spostati al canile o al rifugio di competenza territoriale dove rimarranno fino a che non troveranno una nuova sistemazione, una nuova famiglia che li prenderà con sé. La richiesta di accesso agli atti da parte del responsabile del canile municipale è dunque lecita e può essere utile a rilevare anomalie.
«Incrociando le informazioni tra le diverse associazioni e i registri – dice Alessandra Calafà – risultavano molte segnalazioni fatte dalle stesse persone, sempre in particolari zone della provincia». Questo fatto aveva destato sospetti che non si trattasse di cani appartenenti al territorio ma che provenissero da altre regioni.
Emanuele Chareun, referente cinofilo dell’associazione APAR, che gestisce il canile di Busto Arsizio, aggiunge altri elementi: «Un fatto in comune di questi ritrovamenti sono le caratteristiche comportamentali di questi soggetti. Si tratta quasi sempre di cani non socializzati, molto timorosi, anche dopo diversi giorni di permanenza in struttura. Generalmente un cane abbandonato, ma socializzato, ad un certo punto si adatta. Quasi tutti questi cani invece mostrano enormi difficoltà, sono quelli che si rintanano sul fondo del box e da lì non si muovono mai».
Sempre più cani non nati sul territorio: come è stato scoperto il fenomeno
Un aspetto importante da non sottovalutare è la collaborazione tra associazioni sul territorio perché è proprio grazie a questo modo di lavorare che si sono attivati progetti per cercare di gestire questo fenomeno dei ritrovamenti sospetti. Dice la presidente della Lega per la difesa del Cane di Varese: «Quando abbiamo cominciato ad intensificare i controlli sul territorio effettivamente questi ritrovamenti anomali sono diminuiti, ma in breve, grazie a canali aperti con altre associazioni, si è capito che sono aumentati in altri comuni limitrofi».
Chiudendo una porta, dunque, se ne sono aperte altre e questo ha portato a vedere più chiaramente cosa sta accadendo: cani che vengono spostati da una regione ad un altra, vengono abbandonati e poi viene fatta una segnalazione di ritrovamento sul territorio costringendo, alla fin fine, le strutture a farsene carico. «Nella nostra struttura attualmente ci sono una quarantina di cani – spiega Chareun – Solo sei di questi sono del nostro territorio, tutti gli altri arrivano in questo modo da altre regioni».
Alessandra Calafà rileva anche che, negli ultimi anni, una percentuale del 30% di cani provenienti da altrove nella loro struttura. Un numero rilevante, che fa riflettere. «Abbiamo raggiunto un punto di saturazione – continua la responsabile del canile – ma il fenomeno è continuo, senza considerare poi il problema sanitario». Una questione quest'ultima molto importante: questi cani, provenienti da luoghi diversi, senza alcun controllo sanitario, senza vaccinazioni, possono creare focolai nelle strutture d’accoglienza, come fa notare anche Emanuele del canile di Busto Arsizio: «Più volte ci sono capitati casi di parvovirosi, filariosi e giardia. Patologie che sono anche altamente infettive e si ripercuotono sugli altri soggetti, mettendo in crisi tutto il sistema e il benessere di ogni individuo presente».
I cani che sono stati abbandonati, infatti, non vengono “salvati” con criterio e con responsabilità, e spesso non si pensa alle conseguenze di queste azioni scellerate compiute senza un minimo di criterio.
Chi e perché lascia cani provenienti da altre regioni in giro per le strade della zona?
Ma perché delle persone agiscono così? Proviamo a comprendere l’origine del fenomeno e le sue diverse sfaccettature. Coloro che portano i cani in maniera illecita da varie regioni italiane verso altre in cui il fenomeno del randagismo è sotto controllo, quindi da centro sud verso nord, sono spinti da una motivazione emotivamente comprensibile, tutto sommato.
Si tratta di persone che vivono costantemente una realtà emergenziale nel loro voler aiutare gli animali e sostengono che troppi cani sono lasciati allo sbando e rischiano maltrattamenti, uccisioni o di finire in canili lager di regioni poco controllate. E di canili paragonabili ad un girone dell’inferno purtroppo ce ne sono ancora tanti nel nostro Paese, luoghi dai quali è impossibile uscire anche perché le persone che vivono in quei posti non si recano nelle strutture per adottare un cane ma troppo spesso preferiscono comprarlo utilizzando altri canali, spesso illegali: annunci in Rete, importatori non professionisti, negozi che nascondono illeciti o da cucciolate nate in famiglie di privati a poco costo.
Quindi per un cane finito in quei canili orribili, dove ci sono anche migliaia di soggetti, da anni reclusi, non vi è nella maggior parte dei casi alcuna speranza. Il problema però è che la soluzione diventa a sua volta un'illecito e non c'è una valutazione dei profili comportamentali di quei cani e, come si scriveva, dei rischi sanitari. Queste persone dunque sono mosse da sentimenti onorevoli, dall'idea di voler “salvare quelle anime” destinate alla sofferenza senza fine ed ecco che decidono di fare dei viaggi verso nord come ultima ratio, ma non attraverso staffette legali, collaborazioni tra associazioni, percorsi di adozione e così via come abbiamo spiegato nella nostra inchiesta non a caso intitolata "Staffette, dall'amore al business", ma mollandoli per le strade e poi facendo segnalazioni anonime per indurre il recupero e l'ingresso nelle strutture limitrofe a dove li hanno lasciati.
Chi opera così pensa che quei soggetti in un canile di una zona diversa del Paese avranno una vita migliore e possibilità di un destino più roseo. Male che vadano le cose, ovvero qualora anche al Nord questi cani non trovino un'adozione, pensano che alla fine passare tutta la vita in una struttura più organizzata e meno affollata è comunque meglio piuttosto che il destino a loro riservato essendo nati in “quelle” regioni.
Come dargli torto? Il proposito è assolutamente comprensibile, detto in questi termini. Ma c’è un’altra faccia: quella che abbiamo descritto sopra, tra le difficoltà che cani vissuti in libertà hanno poi nel vivere in un contesto diverso da quello che conoscevano e i rischi legati a eventuali patologie che possono portare all'interno dei rifugi. Effetti nefasti per tutti, anche per le strutture stesse che hanno grandi difficoltà anche in tutto il nord Italia, zona generalmente considerata "più pet-friendly" rispetto al resto della Penisola.
Alessandra Calafà ed Emanuele Chareun non restano certo insensibili alla questione, tutt’altro. Il loro appello non è di negazione della realtà né di contrasto all’aiuto: «Siamo disponibilissimi a dare una mano sempre, purché sia ben fatto ed organizzato. Non vogliamo spostare un problema da una parte all’altra senza che vi sia soluzione. Un cane in canile soffre, che sia qui o altrove, noi vorremmo collaborare e costruire una filiera che abbia un senso, che possa davvero aiutare i cani, in fondo è quello che facciamo da tutta la vita – sottolinea Calafà – Comprendiamo molto bene lo stato di emergenza, che per altro è costante da anni, ma senza organizzazione e cooperazione le cose non possono che peggiorare».
Progetti che funzionano esistono: mettiamoli in pratica
La Lega per la difesa del cane di Varese ha intrecciato relazioni di collaborazione attraverso programmi solidali con strutture in difficoltà di altre regioni, come nel caso dell’isola di Lampedusa. «Stiamo supportando delle associazioni sull'isola – spiega Alessandra Calafà – abbiamo fatto sterilizzare dei cani e abbiamo organizzato la trasferta di alcuni di loro nella nostra struttura avendo monitorato le caratteristiche di questi soggetti, risultati compatibili alla vita in famiglia in un contesto ambientale come quello della nostra provincia, dove tutti vivono per lo più in un appartamento in città ma ci attiviamo anche perché su quel territorio si affronti il problema, si incentivino le adozioni e si diminuiscano gli abbandoni. È però il contesto culturale che deve cambiare, altrimenti siamo sempre punto e a capo. Il punto essenziale è avere la collaborazione delle istituzioni in loco e delle associazioni, altrimenti non si va da nessuna parte».
Valutare i cani e comprendere le loro caratteristiche dal punto di vista sia caratteriale che sanitario prima di fargli fare un viaggio di centinaia di chilometri è importante proprio per considerare tutti gli aspetti. Non è una questione da poco perché sono tante le cessioni ai canili da parte di privati cittadini che inconsapevolmente hanno risposto ad un appello “strappa cuore” e che poi si sono ritrovati incapaci di gestire un cane che non è in grado di vivere in città trafficate e complesse. Anche le cessioni finiscono di ingolfare le strutture e impegnare operatori ed educatori che devono trovare il tempo fisico per cercare di rimediare, quando possibile, alla loro condizione.
«A Busto Arsizio – sottolinea Emanuele Chareun – non ci sono cascinali e campagne dove trovare una collocazione. Qui ci sono soprattutto persone che vivono in condomini e queste adozioni da social, fatte in modo estremamente superficiale, si traducono spesso in rinunce di proprietà. Al momento ne stiamo seguendo ben dieci in contemporanea, oltre al caso di altri cani con gravi problemi comportamentali. Animali che non escono di casa, terrorizzati, che vivono in appartamenti in centro a Busto e che nemmeno alle due di notte riescono ad essere portati fuori, almeno per i bisogni. Quante persone vorrebbero vivere con un cane così, vederlo soffrire tutti i giorni senza riuscire a fare nulla per aiutarlo? E alcune famiglie rinunciano e basta, non sono nemmeno disposte a provare un percorso con il nostro supporto. Parliamo di cani anche di un anno, un anno e mezzo, che non usciranno mai da quella condizione. Non credo che si possa dire che quei cani siano stati “salvati”, non così».
Il quadro generale è sconfortante e le associazioni sono stremate perché ogni giorno ci sono questi problemi che si aggiungono a quelli già esistenti, e non si vede una via d’uscita. Emanuele aggiunge: «Oltretutto ci sono entrati adesso sei cuccioloni, in un periodo nel quale non ci sono richieste perché siamo prossimi alle vacanze estive. In più anche qui al Nord le persone hanno perso l’abitudine di passare dal canile per cercare un compagno, cercano sui social network, alimentando tutti questi traffici e questa superficialità. Come si dice? È un cane che si morde la coda…».
Una testimonianza di quanto dolore può causare un'adozione andata male
Vittime di tutta questa storia, non dimentichiamolo, oltre ai cani e gli operatori che si prendono a cuore questi soggetti, ci sono anche le famiglie cadute nella rete di persone che, in modo sconsiderato, scrivono appelli irrealistici e privi di qualsivoglia attinenza con la realtà, sia per malafede che per incompetenza. Famiglie che dopo la cessione al canile ne escono con il cuore in pezzi. Come nel caso di Giovanni e Stefania, marito e moglie, che volevano dare una casa a Giotto, giovane Pastore Tedesco. Una storia che raccontiamo perché si tratta di una vicenda avvenuta proprio nel mentre si svolgeva questa nostra indagine e che è solo un esempio tra i moltissimi casi che accadono, purtroppo. Questa è la lettera che ci hanno inviato i coniugi:
«Buongiorno, siamo Stefania e Giovanni, di recente abbiamo adottato un cane dal sud Italia, arrivato in provincia di Milano tramite staffetta. Purtroppo questa esperienza, tanto voluta e tanto attesa, si è rivelata devastante sia per il cane che per la nostra famiglia. Dopo solo quattro giorni abbiamo dovuto rinunciare al cane perché ingestibile e con evidenti problematiche comportamentali, ovviamente taciute e nemmeno comprese dal canile di provenienza. Ad oggi ci ritroviamo distrutti e consapevoli del fatto che mai più ripeteremo questo tipo di adozione. Vorremmo scoraggiare chi come noi, in totale buona fede e con i migliori propositi, abbia voglia di compiere un gesto di umanità di questo tipo. Ci ritroviamo distrutti dalla mancanza del cane tanto desiderato accanto a noi e preoccupati per ciò che sarà di lui. Non adottate senza conoscere il cane, senza un periodo di pre-affido ed affiancamento al cane, e senza conoscere a fondo le caratteristiche dell'animale in questione. Auguriamo al nostro adorato cane, anche se per poco con noi, un riscatto e una nuova vita, e speriamo che questa esperienza traumatica, che di certo lascerà l'amaro ricordo per sempre, possa col tempo attenuarsi».
Il cane in questione era stato visto dai coniugi in un appello su Internet e adesso è al canile di Busto Arsizio ma presto verrà portato in un Rescue di Pastori Tedeschi a Pavia. Ci preme qui dire che non tutte le adozioni finiscono male, ma quando le cose non si fanno come si deve le probabilità che il cane non abbia le caratteristiche per inserirsi nel contesto familiare, o che la famiglia non sia in grado di gestire un cane con certe caratteristiche, sono altissime.
L’appello alle associazioni: «Collaboriamo, insieme ce la possiamo fare»
Alessandra Calafà della Lega del Cane di Varese e Emanuele Chareun del canile comunale di Busto Arsizio attraverso Kodami fanno così un appello nel tentativo di smuovere le coscienze e di cambiare questa situazione che pare senza via d’uscita: «Chiediamo alle associazioni in difficoltà di contattarci per cercare di affrontare la situazione insieme, di unirsi alla rete e di avviare collaborazioni tra le varie regioni. Abbiamo degli obblighi morali verso gli animali che salviamo e non basta prenderli da un posto e mollarli in un altro per sentire di avere la coscienza a posto. Chiediamo di fare uno sforzo a tutti per la cooperazione: dev’essere un lavoro in sinergia, e forse così riusciremo a far fronte a questa situazione drammatica, per aiutare veramente i cani e dar loro una vita degna. C’è differenza tra lo spostare un cane da una regione ad un’altra e il far adottare un cane in una famiglia».
Lo spirito dunque, e speriamo sia chiaro anche da parte nostra, non è quello di fare la guerra a qualcuno. Basta con lotte tra associazioni, volontari e strutture e tanto meno tra regioni e province: è ora di unirsi per dare speranza a chi di speranza ne ha poca e che si merita tutto il nostro impegno e aiuto. Bandendo la superficialità e, soprattutto, il malaffare.