L'uomo nel corso del tempo ha fabbricato diversi materiali difficili da smaltire che, una volta immessi in natura, sono altamente inquinanti. Tra le sostanze di origine antropica rientra il PFAS, famiglia di composti chimici utilizzati in un'ampia gamma di applicazioni industriali, commerciali e di consumo per rendere resistenti ai grassi e all'acqua tessuti, carta e rivestimenti per contenitori di alimenti.
Per verificare il livello di contaminazione da PFAS, un gruppo di ricercatori ha dimostrato che il fegato dei cinghiali (Sus scrofa) può essere utilizzato come bioindicatore perché nell'organo si accumulano molecole di questo tipo in grandi quantità. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Science of the Total Environment a cura di un team di ricercatori dell'Helmholtz Center for Environmental Research (UFZ).
Le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) sono altamente pericolose perché, se smaltite illegalmente o non correttamente nell’ambiente, inquinano alterando le catene trofiche e diventando tossiche per tutti gli organismi viventi, uomo compreso. E' dunque importante "tenere sott'occhio" le modalità di smaltimento per evitare l'insorgenza di situazioni pericolose. Per valutare una modificazione della qualità dell'ambiente si ricorre dunque ai bioindicatori e, in questo caso, i ricercatori hanno utilizzato il fegato di cinghiali precedentemente deceduti per cause naturali per monitorare i livelli di PFAS.
Data la dieta variegata e la grande capacità di spostamento dei cinghiali, questi animali accumulano una rilevante quantità di sostanze nocive. Si nutrono di topi, rane, lumache o vermi che a loro volta vengono contaminati. Inoltre scavano molto nel terreno e attraverso questo assorbono, appunto, direttamente PFAS. Per verificare la presenza di questa sostanza è stato utilizzato il fegato per un motivo ben preciso: «I PFAS non si accumulano nel tessuto adiposo come la maggior parte degli inquinanti ambientali, ma si legano principalmente alle proteine di cui è ricco il sangue. Poiché il fegato è ben irrorato, ecco svelato il motivo per il quale è un ottimo bioindicatore», ha spiegato Rupp, chimico ambientale dell'UFZ e primo autore dell'articolo.
Il gruppo di ricerca dell'Helmholtz Center for Environmental Research si è concentrato su 66 composti PFAS. L'approccio di biomonitoraggio, sviluppato insieme al German Water Center di Karlsruhe, è stato attuato in tre siti in Germania che si presentavano in tre condizioni diverse: il primo nei pressi della città di Rastatt nella regione di Baden, il secondo in un‘area industriale nel sud della Germania e l'ultimo nel nord-est della Germania.
Attraverso l'analisi dei dati è emerso che la concentrazione di PFAS rilevata nei cinghiali presenti nelle vicinanze dell'azienda industriale nella Germania meridionale era quasi doppia rispetto a quella riscontrata nel primo sito di campionamento e quasi otto volte superiore alle concentrazioni presente nella terza località. Il sito industriale, inoltre, è ancora dominato da una vecchia sostanza PFAS attualmente vietata, ma che può ancora essere rilevata a causa della sua estrema persistenza.
Da questo studio emerge una triste verità che, purtroppo, non è altro che la conferma di situazioni già riscontrate precedentemente con altri materiali di origine antropica: ciò che viene prodotto dall'uomo la maggior parte delle volte non viene smaltito nella maniera corretta e si riversa nell'ambiente, avvelenandolo.
In particolar modo, il PFAS rappresenta un nemico difficile da combattere in quanto è un insieme di composti chimici invisibili e impossibili da individuare all'occhio nudo. Fortunatamente c'è chi è consapevole di quanto sostanze del genere siano tossiche per la natura e per tutti gli esseri viventi ma purtroppo la strada verso la sensibilizzazione su questi temi è ancora lunga.