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10 Gennaio 2023
16:03

Il cervello umano resta sempre giovane. L’autore dello studio: «Tra i primati accade solo a noi»

Un nuovo articolo pubblicato su Nature, redatto anche da alcuni scienziati dell'Università Federico II di Napoli, conferma il modo in cui il nostro cervello sia rimasto un eterno "giovane" e che le sue proprietà non sono solo legate alle grandi dimensioni.

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J. M. Barrie, l'autore di Peter Pan, ne sarebbe rimasto entusiasta: una nuova scoperta dimostra che il cervello si comporta come il noto personaggio letterario che non voleva diventare adulto.

I ricercatori dell'Università di Napoli Federico II, insieme ad altri scienziati italiani, australiani ed americani hanno confermato questa teoria ipotizzata già da diverso tempo all'interno degli ambienti accademici: non è per le grandi dimensioni del nostro cervello se possediamo eccezionali capacità cognitive, ma è anche per la capacità di rimanere giovani (la neotenia) che ha permesso ai nostri cervelli di svilupparsi senza divenire "mai adulti", anche successivamente alla maturità sessuale. La notizia è stata pubblicata su Nature.

Per comprendere la scoperta e in che modo  influenza il campo delle neuroscienze, dobbiamo prima chiarire cosa sia la neotenia e quale era lo scopo della ricerca condotta dagli scienziati di Napoli.

Con il termine neotenia gli scienziati definiscono il fenomeno evolutivo per cui anche negli individui sessualmente maturi e al di là degli anni, sono presenti delle caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili. Tali caratteristiche, che in apparenza possono sembrare uno svantaggio evolutivo, in verità possono divenire delle proprietà così importanti per una specie da definirne il successo e la longevità. Tra le caratteristiche neoteniche nell'uomo osserviamo, per esempio, la capacità di digerire il latte negli adulti, il mantenimento del comportamento ludico o la scarsità del pelo corporeo, che gli hanno permesso di adattarsi a condizioni ambientali sfavorevoli diverse.

Gli scienziati della Federico II hanno iniziato così ad approfondire come il nostro encefalo potesse definirsi un "eterno adolescente", scoprendo tra l'altro che il cervello delle forme più moderne di Homo – ovvero Sapiens e Neanderthal – ha avuto una evoluzione molto più rapida rispetto a quella di tutti gli altri primati. Il risultato è che abbiamo ormai le prove per sostenere che il cervello mantiene una forma giovanile, per gran parte della sua esistenza. Questo però non ci deve portare a credere che il nostro cervello sia un organo immaturo, in quanto nel suo sviluppo ha continuato a sostenere una costante coordinazione nella crescita delle varie parti, che lo hanno reso più plastico e capace di apprendere più a lungo, rispetto al cervello delle forme umane precedenti.

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Analizzando evoluzione della forma del cervello utilizzando la morfometria geometrica tridimensionale degli endocast, ovvero dei calchi interni di un cranio, gli scienziati hanno allora iniziato a comprendere come i cervelli delle scimmie antropomorfe e di molte forme umane presentassero anch'essi livelli elevati di coordinazione nello sviluppo e nel cambiamento di forma dei lobi cerebrali. Solo che, a differenza dei sapiens e dei Neanderthal, tale processo in queste specie si interrompe alla fase immediatamente precedente la maturità sessuale, bloccando la crescita cerebrale. Noi Sapiens invece – e prima di noi i neandertaliani – manteniamo un'alta coordinazione dello sviluppo dei lobi cerebrali per tutta la vita, caratteristica che ci rende dei veri e propri Peter Pan.

L'analisi ha coinvolto 400 endocast, appartenuti a 148 specie di primati esistenti e 6 ominidi fossili. Come tengono però a ribadire gli scienziati, lo sviluppo tra le diverse aree del cervello in H. sapiens e H. neanderthalensis ha tassi evolutivi nettamente più elevati rispetto a qualsiasi altro primate, suggerendo che la selezione naturale ha favorito un cervello fortemente integrato in entrambe le specie.

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Per Gabriele Sansalone, a capo dell'equipe di scienziati che ha coinvolto anche la Federico II, la scoperta è importante anche per comprendere la rapidità della evoluzione umana. «Questi risultati suggeriscono che la coordinazione fra le aree cerebrali è stata un fattore chiave nell'evoluzione umana, stimolata dalla selezione naturale. Inoltre sembra probabile che i nostri cugini, i Neanderthal, avessero un cervello potente e altamente coordinato come il nostro».

Un cervello giovane

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Stephen Jay Gould, noto per essere anche tra i massimi riformatori della teoria dell’evoluzione darwiniana del Novecento

A definire però per primi la nostra specie come neotenica sono stati un anatomofisiologo olandese, Lodewijk Bolk, e il noto paleontologo, evoluzionista e storico della scienza Stephen Jay Gould, che nel corso della stesura dei suoi saggi difese molto la sua posizione, confrontando per esempio l'attuale sviluppo del cervello umano rispetto a quello delle altre forme di mammiferi. Nelle tesi di Gould e Bolk non erano però presenti i complessi modelli dello sviluppo del cervello umano che oggi gli scienziati dispongono a seguito delle più recenti scoperte. Entrambi, infatti, svolgevano le loro riflessioni partendo dal confronto esclusivamente morfologico delle teste delle diverse specie.

Paquale Raia, paleontologo della Federico II ed uno degli autori dello studio pubblicato su Nature, spiega a Kodami come si pone la loro nuova scoperta rispetto alla teoria dell'uomo neotenico che è stato sollevato anni fa dal paleontologo statunitense, ma anche ad altre linee di ricerca. «Ovviamente Gould, e prima di lui Bolk e Montagu, non parlavano esattamente di integrazione e modularità del cervello, ma di certo la nostra scoperta dimostra che una caratteristica tipicamente giovanile, presente nelle antropomorfe, rimane nell’età adulta nei sapiens, e questa è il classico esempio di neotenia. Peraltro, credo che la cosa più significativa del nostro lavoro sia come il nostro studio fornisce la prima storica prova a supporto della teoria della fluidità cognitiva di Mithen».

Questa teoria afferma che gli esseri umani nel corso della loro storia evolutiva abbiano posseduto e posseggono ancora un grado unico di fluidità cognitiva. Una singolare capacità di amalgamare diversi domini del pensiero che ha permesso ai primati di evolversi nelle forme moderne, combinando diversi modi di elaborare la conoscenza, inventando gli strumenti e i modelli di pensiero utili per creare la civiltà.

«La capacità di amalgamare diversi domini del pensiero è stato fondamentale per supportare lo sviluppo di complessi fenomeni cognitivi, anche diversi dell’intelligenza» – continua Raia – «Tale capacità di mischiare le funzioni cerebrali superiori è divenuta così la base della nostra capacità intellettiva e questa è esattamente la dimostrazione di come la teoria di Mithen è da considerarsi corretta».

Riguardo invece al fenomeno complesso dell'autoidentificazione dell’io, Raia ci tiene a precisare: «Si tratta di una cosa diversa. Gli scimpanzé, per esempio, sono dotati di autocoscienza (come ogni banale mirror test confermerà) ma non credo che la coscienza di sé possa essere spiegata dall’integrazione corticale (che è presente nel cervello degli uomini, ma assente in quelle delle scimmie)». Altrimenti gli scimpanzé non sarebbero in grado di avere consapevolezza dell'Io, quando sappiamo che non è così.

Poi, riflettendo sulla dieta carnivora dei nostri antenati, che secondo alcune vecchie teorie dovrebbe aver costituito l'impulso verso lo sviluppo di un cervello sempre più grande e dell'intera evoluzione umana, Raia commenta «Personalmente credo che il problem solving sia stato molto più importante dell’alimentazione per la nostra evoluzione. La teoria dell’expensive tissue, per esempio, non dice che la carne abbia favorito lo sviluppo del cervello, ma piuttosto che abbia liberato energie per il cervello. Una cosa molto diversa».

Sono laureato in Scienze Naturali e in Biologia e Biodiversità Ambientale, con due tesi su argomenti ornitologici. Sono un grande appassionato di escursionismo e di scienze e per questo ho deciso di frequentare un master in comunicazione scientifica. La scrittura è la mia più grande passione.
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