Negli ultimi mesi si stanno moltiplicando gli studi che sfruttano il DNA ambientale – ovvero il DNA disperso da varie specie nell'ambiente – per ottenere importanti informazioni legate alla biologia degli animali. Un ultimo esempio di questa tecnica arriva direttamente dalla foresta Amazzonica, dove alcuni scienziati interessati a studiare una particolare specie di scimmia, il muriqui settentrionale (Brachyteles hypoxanthus), un primate a un passo dall'estinzione per via del disboscamento e anche fra gli animali meno conosciuti.
E per quanto possa sembrare strano, per capire meglio la biologia riproduttiva di queste scimmie, i ricercatori dell‘Università del Texas (UT) ad Austin e dell'Università del Wisconsin-Madison hanno deciso di optare per l'analisi del DNA raccolto dalle deiezioni di questi animali.
Gli autori dello studio, pubblicato tra le pagine di Proceedings of the Royal Society B, hanno infatti dichiarato che senza l'utilizzo della cacca non avrebbero potuto risolvere un mistero che andava avanti ormai da diversi decenni. Karen Strier, professoressa di antropologia alla UW-Madison e coautrice dell'articolo, ha per esempio trascorso oltre 40 anni a studiare il comportamento e l'ecologia di queste scimmie insieme a tanti altri etologi e biologi. Dopo anni di studio, però, gli scienziati non avevano ancora chiaro come i muriqui si riproducessero e scegliessero il proprio partner.
Strier ha però ottenuto un vantaggio dall'aver passato tutto questo tempo in Brasile. Lei e il suo team ora sanno identificare ogni singola scimmia e conoscono ciascuna singola parentela. Questo ha aiutato moltissimo il team quando hanno cominciato a raccogliere gli escrementi degli animali, poiché permetteva agli esperti di sapere esattamente con chi erano imparentati i "proprietari" delle feci.
Dopo aver raccolto i campioni, il team di Karen Strier non si è infatti limitato a conservarli. Li ha spediti al direttore del Primate Molecular Ecology and Evolution Lab presso l'UT di Austin, Anthony Di Fiore, sfruttando la conoscenza in comune di Paulo Chaves, che fino a qualche anno fa era ancora solo uno studente laureato di Di Fiore. Chaves, insieme al suo professore, ha quindi usato alcuni dei campioni fecali come fonte di DNA per analizzare il comportamento di accoppiamento dei muriqui, creando così un vero e proprio database genetico.
Karen Strier, durante l'intervista ai media brasiliani, ha spiegato che a differenza della maggior parte degli altri primati presenti in Sud America, i muriqui vivono in società pacifiche ed egualitarie, non molto rumorose, il cui nucleo è costituito da maschi imparentati e dal grande gruppo delle loro madri, che il più delle volte sono sorelle o cugine.
All'interno di questi gruppi non c'è molta competizione sessuale, visto che le femmine libere sono molto poche e risultano essere o troppo giovani o troppe anziane, per i giovani adolescenti alla ricerca di compagne. «Sapevo ovviamente dalle osservazioni comportamentali che c'era mancanza di competizione nell'accoppiamento e che le madri non si accoppiavano con i loro figli o parenti stretti maschi. Ma l'unico modo che era rimasto per sapere di chi sono i padri dei tanti figli presenti in alcune comunità era ormai la genetica», ha chiarito Strier.
Dalla loro analisi di laboratorio, Chaves e Di Fiore hanno confermato che non ci sono accoppiamenti madre-figlio, il che suggerisce che i muriqui sono in grado di riconoscere i loro parenti. Questo permetterebbe a questi animali di evitare l'accoppiamento tra consanguinei, molto pericoloso dal punto di vista genetico, in quanto favorisce la diffusioni di mutazioni sfavorevoli.
Hanno inoltre scoperto che le femmine tendono a riprodursi con i maschi che hanno una diversificazione maggiore di geni, in particolare in quelle sequenze che codificano molecole che svolgono un ruolo importante nella risposta immunitaria contro alcune malattie esotiche ed altri fattori di stress ambientale. Una proprietà che le femmine riuscirebbero a selezionare semplicemente con la vista, andando a scegliere gli esemplari visibilmente più in salute e che si nutrono meglio o con la pelliccia più folta.
«La nostra scoperta, ovvero che i maschi più richiesti sono anche quelli che hanno una maggiore diversità genetica, è uno degli abituali comportamenti che ci aspetteremmo se tale diversità contribuisse alla forma fisica maschile o se permettesse lo sviluppo di caratteristiche utili per effettuare la corretta scelta del partner – ha spiegato Di Fiore, in un comunicato stampa pubblicata dal suo centro di ricerca – Ed in effetti è proprio quello che succede».
L'idoneità maschile, in questo caso, si riferisce alla capacità di un potenziale partner di fornire alla prole i geni che daranno loro le migliori chance di sopravvivenza. Questa diversità può fornire alla prole una maggiore protezione contro i potenziali disturbi presenti nell'ambiente, il che è evolutivamente vantaggioso, spiega Strier.
Teoricamente quindi, una femmina dovrebbe scegliere maschi che non solo hanno un'elevata diversità, ma che hanno anche geni diversi dai suoi. Tuttavia, l'analisi genetica ha mostrato che mentre le femmine sembrano scegliere compagni con una maggiore diversità genetica in generale, non stavano in realtà necessariamente scegliendo maschi con varianti genetiche diverse dalle loro.
Tale fenomeno ha però un altra conseguenza, molto marcata. Proprio a seguito di questa costante ricerca di maschi con ottimi geni, le femmine più giovani in alcuni momenti dell'anno si accoppiano con i maschi dei gruppi familiari vicini. Essendo però le femmine molto più numerose dei maschi, questo comporta che tutti i maschi alla fine si sentono appagati da un punto di vista riproduttivo ed è per questo se la competizione è molto bassa e non ci sono particolari scontri.
«Quando un gruppo di femmine giovani accorre per trovare il partner perfetto, un ristretto gruppo di maschi non deve neanche sforzarsi di battersi per accedere al bene più prezioso: la possibilità di avere dei figli – spiegano i ricercatori – Al massimo i maschi bisticciano un po' per ottenere del cibo e danno mostra di sé dondolandosi fra gli alberi, ma oltre a lasciarsi guardare dalle pretendenti non fanno molto per accaparrarsi il loro favore». Sono più che altro le femmine quindi a competere, nel tentativo di prendersi per prima il miglior esemplare di turno.