Che il sottosuolo di New York fosse popolato da milioni di ratti grigi (noti anche come ratti della Norvegia, o ratti marroni) è cosa talmente nota da essere entrata nell’iconografia della città. Quello che non si sapeva, però, è che questi animali sono tra quelli che possono contrarre la Covid-19. A dimostrarlo un nuovo studio pubblicato sul giornale dell’American Academy of Microbiology in cui è stata esaminata la popolazione di ratti newyorchesi per capire se sono suscettibili all’infezione da SARS-CoV-2 da parte degli esseri umani.
Nella sola città di New York si stima che la popolazione di ratti selvatici che vivono nelle reti fognarie si aggiri intorno agli 8 milioni.Sono animali che interagiscono quotidianamente, in modalità differenti, con gli esseri umani. I ricercatori hanno quindi deciso di determinare se il virus SARS-CoV-2 negli esseri umani è stato trasmesso alla popolazione di ratti nelle aree urbane degli Stati Uniti, in particolare appunto a New York, e di determinare quale variante abbia causato quelle infezioni.
Come è stato condotto lo studio
Nell'autunno del 2021, dunque, il Servizio di ispezione per la salute degli animali e delle piante (APHIS) del Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti (USDA) ha campionato i ratti norvegesi (Rattus norvegicus) a New York per cercare prove dell'infezione da SARS-CoV-2. Due tentativi di cattura sono stati condotti nei mesi di settembre e novembre con il permesso del Dipartimento dei parchi e delle attività ricreative di New York all'interno e intorno alle località circostanti i sistemi di acque reflue. La maggior parte dei ratti è rimasta catturata nei parchi cittadini di Brooklyn, anche se alcuni sono stati catturati vicino a edifici al di fuori dei confini del parco.
Nel corso delle loro ricerche, i biologi hanno raccolto ed elaborato campioni da 79 ratti per effettuare studi virologici e di sequenziamento genomico, scoprendo che i ratti esaminati erano stati esposti al virus della Covid-19 ed evidenziando un possibile collegamento con i virus che circolavano negli esseri umani durante le prime fasi della pandemia. Nello specifico, 13 ratti su 79 (il 16,5%) sono risultati positivi. I ricercatori hanno quindi condotto un ulteriore approfondimento, dimostrando che le varianti Alpha, Delta e Omicron, trovate negli esseri umani, possono causare infezioni nei ratti, tra cui alti livelli di replicazione nelle vie respiratorie superiori e inferiori e induzione di risposte immunitarie sia innate che adattative.
Perché è importante monitorare i contagi uomo-animale
«Per quanto ne sappiamo, questo è uno dei primi studi a dimostrare che le varianti SARS-CoV-2 possono causare infezioni nelle popolazioni di ratti selvatici in una delle principali aree urbane degli Stati Uniti», ha sottolineato il professor Henry Wan, direttore del Centro per l'influenza e le malattie infettive presso l'Università del Missouri e coordinatore dello studio. A oggi è stata registrata infezione da Covid-19 in animali domestici come cani, gatti e criceti, ma anche in grandi felini, primati, ippopotami, visoni da allevamento, cervi e formichieri.
In tutti i casi si è tratto di infezioni da umani verso animali, e non il contrario, ma il rischio è quello del cosiddetto "spillback", ovvero di assistere a mutazioni del virus, che circolando negli organismi animali può appunto mutare dando vita a nuove varianti che potrebbero contagiare l'uomo. Il virus Sars Cov-2 è infatti una zoonosi, cioè un virus nato negli animali e poi passato all’uomo attraverso un salto di specie, il cosiddetto "spillover", come spiegato su Kodami dal giornalista scientifico David Quammen durante una puntata del nostro format Meet Kodami. E il fenomeno dello "spillback", ovvero il salto del patogeno dall’uomo agli animali, può essere causa di malattia in specie animali che a loro volta possono diventare fonte di nuove infezioni per l’uomo.
«I risultati dei nostro studio evidenziano la necessità di un ulteriore monitoraggio della SARS-CoV-2 nelle popolazioni di ratti per la potenziale trasmissione zoonotica secondaria all'uomo – ha però sottolineato Wan – Nel complesso, il nostro lavoro mostra che gli animali possono svolgere un ruolo nelle pandemie che hanno un impatto sugli esseri umani, ed è importante che continuiamo ad aumentare la nostra comprensione del fenomeno in modo da poter proteggere sia la salute umana che quella animale».