Nel corso degli ultimi millenni, le attività umane hanno pesantemente impatto su diversità, abbondanza e distribuzioni dei grossi mammiferi predatori, portando decine di specie a estinguersi completamente. Per quanto però orsi, leoni, ghepardi, lupi, tigri e iene siano ancora presenti fra di noi, è anche vero che molte queste specie sono ancora pesantemente in declino e hanno avuto di bisogno di un aiuto concreto, nel corso dell'ultimo secolo, per sopravvivere al danno che noi stessi gli abbiamo arrecato.
Proprio per conoscere lo stato di salute di tutti gli animali predatori, una equipe di scienziati dell'Università di Oxford ha effettuato uno studio, pubblicato su Conservation Biology, in cui hanno valutato gli eventuali risultati delle politiche di conservazione delle diverse specie. Per far ciò hanno preso in considerazione soprattutto i progetti di traslocazione e ripopolamento dei territori maggiormente vocati a programmi di rewilding (tali attività sono sforzi di conservazione volti a ripristinare i processi naturali nelle aree selvagge) e nessun altro prima di loro aveva tentato di determinare complessivamente su scala globale il successo o meno di queste operazioni.
Così gli scienziati inglesi hanno analizzato i dati di oltre 300 progetti di trasferimento o ripopolamento degli animali, tutti avvenuti tra il 2007 e il 2021 in 22 paesi dei cinque continenti. Hanno anche studiato migliaia di pubblicazioni scientifiche che presentavano i risultati di diversi progetti già conclusi, come quelli che hanno tentato di migliorare le condizioni e il numero di tigri del Bengala (Panthera tigris tigris) o del lupo europeo (Canis lupus lupus). In totale, però, sono state 18 le diverse specie di grandi predatori studiate dal progetto, questo a prova di come siano ormai poche le specie di grandi predatori terrestri ad essere sopravvissuti all'avanzata degli esseri umani.
L'analisi degli studiosi di Oxford ha comunque rivelato che i due terzi (66%) dei trasferimenti nei progetti di conservazione delle specie hanno avuto successo. Rispetto al 2007, inoltre, i più recenti trasferimenti di carnivori hanno avuto tassi di successo molto superiori, dimostrando come la comunità scientifica stia lavorando bene per consentire a queste specie d'integrarsi meglio nei nuovi habitat, anche con le dovute differenze.
«Mentre gli individui nati in cattività se la sono cavata peggio rispetto gli individui nati in natura, è stato osservato un aumento del 32% dei tassi di successo per i rilasci di individui nati in cattività negli ultimi 14 anni, rispetto a un aumento del 17% del successo per i rilasci di individui nati in natura» commentano infatti nel loro articolo i ricercatori di Oxford.
Secondo gli esperti, per i carnivori nati in natura, le specie con le percentuali di successo più elevate erano crisocione, puma e ocelot (percentuale di successo del 100%), mentre quelle con la percentuale di successo più bassa (circa il 50%) erano leoni africani, ghepardi, iene brune, linci iberiche e lupi grigi. Questo ha condotto gli scienziati a credere che è sempre meglio trasferire gli animali in nuovi ambienti naturali, particolarmente quando sono giovani. Inoltre, continua a essere netta la differenza che sussiste fra animali nati in cattività con quelli nati in natura, che presentano maggiori chance rispetto ai primi nell'ambientarsi alle nuove condizioni di vita. Quali sono però i fattori che spingono questi progetti ad ottenere o meno dei successi?
Oltre all'età degli animali e all'essere nati o meno in cattività, i fattori principali che garantiscono il successo nei progetti di rewilding sarebbero quelli connessi al metodo di rilascio. Gli scienziati di Oxford hanno infatti notato che il rilascio morbido che prevede l'acclimatazione e l'adattamento dell'animale al nuovo contesto prima di rilasciarli completamente, ha raddoppiato le probabilità di successo e permesso ai predatori di vivere in un maggior numero di territori e ambienti, che prima erano difficili da ripopolare. Questi successi però potrebbero non bastare.
Infatti i ricercatori hanno notato come sfortunatamente solo il 37% degli animali che sono stati trasferiti sembra aver trovato un partner e sia riuscito ad allevare e ad avere dei cuccioli. Una triste notizia, che mette in discussione tutti i successi finora raggiunti.
Non si sa ancora perché la maggioranza degli animali (più del 60%) che sono stati traslocati presso nuove aree naturali non siano riusciti a formare una famiglia. Il loro scarso successo riproduttivo potrebbe però spiegarsi con le sfide che hanno dovuto affrontare nel sopravvivere in nuovi territori, o per il fatto che necessitano di molti anni affinché animali giovani, oltre ad ambientarsi, riescano a riprodursi con successo.
«Negli ultimi 15 anni abbiamo avuto più successo nel traslocare e reintrodurre i grandi carnivori, rispetto per al vederli riprodurre. Questo però ci consente comunque di essere ottimisti per il futuro della ricostruzione degli ecosistemi danneggiati – ha affermato l'autore principale dello studio, Seth Thomas – Dobbiamo però ricordare che è sempre più importante proteggere le popolazioni naturalmente presenti nei siti in cui è possibile ancora trovarli allo stato selvatico. Anche se siamo migliorati tantissimo negli anni, con i tentativi di traslocazione, il 34% dei trasferimenti individuali e dei progetti di ripopolamento falliscono. E questi progetti non possono essere visti come un sostituto dell'azione di conservazione immediata sul territorio per salvare le popolazioni che vivono negli areali storici ancora integri».
Gli studiosi inoltre sperano che i risultati presentati nel loro articolo possano aiutare i biologi in futuri progetti di conservazione, semplificando allo stesso tempo i processi decisionali che aiutano a raggiungere più rapidamente buoni risultati utili a migliorare ulteriormente lo stato di conservazione dei grandi carnivori.