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30 Maggio 2024
9:00

I gatti ci vedono come genitori?

I gatti non ci vedono né come genitori né come padroni. È improbabile anche che ci vedano come dei “grossi gatti”, piuttosto come una delle tante specie che popolano la Terra. Su una cosa non c'è però dubbio: i gatti obbediscono solo a se stessi.

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Membro del comitato scientifico di Kodami
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I gatti non ci vedono né come genitori né come padroni. Da una parte, infatti, i meccanismi di riconoscimento dei propri conspecifici sono ancestrali, scolpiti nelle memorie profonde delle specie e si basano su affinità isomorfiche (mi riconosco in chi mi assomiglia), sensoriali, percettive e comportamentali. Dall’altra, i gatti si sono evoluti per stabilire con l’uomo una relazione ben lontana dalla sudditanza la quale, affondando probabilmente le sue radici nel sistema di attaccamento, trova la sua ragione d’essere nella fiducia verso l’altro, che va nutrita da ciascun individuo a partire dalle primissime fasi della sua vita.

I gatti ci vedono come genitori o “padroni"?

Che i gatti ci vedano come genitori, in particolare come madri, è un po’ una bufala che gira da qualche anno sul web, da quando, attorno al 2014 (vado a memoria) in un’intervista che divenne virale tra i gattofili, il biologo John Bradshaw dichiarò che i mici ci vedono come “gatti più grandi che sostituiscono la mamma”.

In realtà, Bradshaw si riferiva al fatto che i segnali usati dal gatto per comunicare con l’uomo sono molto simili a (o per meglio dire derivati da) quelli che lo stesso gatto sviluppa durante l’interazione con mamma gatta e che esiste, quindi, una sorta di codice comunicativo che passa dalla relazione con la madre alla relazione con l'altra specie. Nella testa di molti gattofili (ma, ahimè, anche di molti articolisti), invece, le parole di Bradshaw si sono tradotte nell’idea che i gatti ci vedano come delle madri surrogate, cosa che giustificherebbe l’infantilizzazione operata su di loro, la loro presa in carico “come se fossero sempre indifesi” e l’idea che vadano protetti da tutto e tutti perché “ragionano come bambini di 2 anni”.

All’opposto, c’è chi ancora cerca di stabilire con il gatto una relazione di sudditanza per cui il micio deve ubbidire, deve capire chi comanda in casa, non si deve permettere di graffiare o rovinare mobili, deve essere ben addestrato. Insomma, deve ubbidire al "padrone" che gli allunga il pasto.

Non c’è nulla di scientifico, né in una posizione né nell’altra.

Come ci vedono i gatti?

In realtà, come ci vedano i gatti è ancora per molti versi un mistero, anche se la scienza sta cercando di comprenderlo tassello per tassello.

Quello che sappiamo, ad oggi, è che – come lo stesso Bradshaw afferma – i gatti sembrano essere sensibili alla nostra altezza e alle nostre proporzioni, tanto che salgono sul tavolo per coinvolgerci, per annusarci il naso in segno di saluto o semplicemente per poter raggiungere l’altezza del nostro volto e chiedere di interagire.

È improbabile che ci vedano come dei “grossi gatti” perché il riconoscimento dei conspecifici ha a che fare con dei meccanismi di rispecchiamento ancentrali che si attivano sin dalla nascita e che si basano sull’interazione e l’integrazione di segnali visivi, acustici, sensoriali, olfattivi, comportamentali. In altre parole, un gatto che cammina a quattro zampe, ha una coda e marca tirandola su, difficilmente può riconoscersi in un bipede che cammina, gesticola, parla e scrive al PC.

È molto più probabile che ci gatti ci vedano come una delle tante specie che popolano la Terra e con cui, se esposti in età precoce, sono in grado di familiarizzare, esattamente come, attraverso gli stessi meccanismi, fanno con il cane, con il cavallo, con la capra o con qualunque altra specie.

Ma non è un rapporto di ubbidienza quello che instaurano: i gatti obbediscono solo a se stessi e rispondono solo all’esigenza di sentirsi sicuri nell’ambiente in cui vivono e nel contatto con i loro partner sociali. Ecco perché è molto più produttivo essere rassicuranti e accoglienti con un gatto, piuttosto che pretendere la sua cieca fedeltà.

D’altra parte, gli studi sull’attaccamento gatto-uomo – sebbene abbiano dato ad oggi risultati anche contrastanti -, hanno dimostrato che è possibile che il gatto trasferisca sull’uomo quanto meno una parte del suo repertorio socio-emotivo: il gatto esprime nei confronti del pet-mate una serie di segnali sociali che si sviluppano tipicamente nella relazione madre-gattino (lo strofinamento, il fare le fusa, l’addormentarsi vicino, per esempio) e può stringere un legame affettivo che potrebbe, in qualche misura, essere l’estensione o la derivazione del suo legame con la prima figura di attaccamento.

Sarebbe svilente per la loro intelligenza, quindi, attribuirci talmente tanta grandiosità da ritenere che per i gatti rappresentiamo delle “madri” accudenti, dei padri-padroni o dei “super felini” giacché la loro percezione andrà probabilmente ricercata nell’enorme plasticità – anche sociale – che la specie mostra di avere e la scienza svela sempre con dati sempre più convincenti.

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Sonia Campa
Consulente per la relazione uomo-gatto
Sono diplomata al Master in Etologia degli Animali d'Affezione dell'Università di Pisa, educatrice ed istruttrice cinofila formata in SIUA. Lavoro come consulente della relazione uomo-gatto e uomo-cane con un approccio relazionale e sono autrice del libro "L'insostenibile tenerezza del gatto".
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